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Il maestro vuoto

Recensione a:
Aa. Vv.
Tempi Covid moderni
Koinè, anno XXVII, nn. 1-4
A cura di Alessandro Dignös
Gennaio-Dicembre 2020
Petite Plaisance, 2020
in Vita pensata, n. 24, marzo 2021, pagine 58-60

Il numero 24 di Vita pensata è dedicato alla scuola, e in generale all’insegnamento, nei tempi della barbarie. Vi ho pubblicato un’analisi delle tematiche pedagogiche che vengono discusse nel numero 2020 di Koinè.
La didattica del vuoto -detta anche didattica a distanza– ha come orizzonte fondativo e prospettiva futura quello che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, «un volto incorporato nelle applicazioni digitali, un potente e freddo detta-istruzioni, obbedendo alle quali l’utente compie con successo l’operazione prefissata, raggiunge il risultato voluto e/o imposto» (p. 33).
Il maestro vuoto è l’espressione pedagogica e didattica dell’universale rimozione della presenza dei corpimente nello spaziotempo, è la dissipatio della dimensione politica della vita umana.
Il maestro vuoto è il protagonista della «videolezione, come lezione spettrale», appiattita «sulla mera trasmissione di nozioni» (p. 40).
Il maestro vuoto è la vittoria della separazione tra gli umani, della negazione della natura sociale di Homo sapiens, è il trionfo della distanza come vero e proprio paradigma antropologico, psicologico, comportamentale, etico, per il quale l’altro è sempre un rischio, un competitor, un nemico.
L’orizzonte epistemologico nel quale queste complesse dinamiche si inscrivono è il transumanesimo, il superamento dell’umanità biologica a favore dell’umanità digitale. Se tale prospettiva può sembrare patologica, bisogna tuttavia riconoscere che «though this be madness, yet there is method in’t”», che c’è del metodo in tutta questa follia.

L’idiota a distanza

Dire umanità, fratellanza, solidarietà come se l’umano non avesse elementi biologici, come se non fosse un corpo, come se non condividesse con gli altri mammiferi anche l’aggressività, il territorio, l’identità di gruppo; usare così le parole e i valori, significa fare ciò che con lucidità il marxismo definisce ideologia, vale a dire utilizzare il linguaggio come maschera della realtà, come nascondimento di ciò che accade.
Risulta ad esempio ideologico l’utilizzo politico -e non semplicemente morale- che l’attuale Pontefice Romano fa di tali e altre parole. Proclamando infatti che siamo tutti fratelli, «Francesco aderisce a una concezione completamente irrealistica dei rapporti sociali. […] Crede che la politica si riduca alla morale, che a sua volta si riduce all’ ‘amore’» (Alain de Benoist, Diorama Letterario, n. 359, gennaio-febbraio 2021,  p. 4). Il risultato di questi atteggiamenti è sempre contraddittorio: non si può infatti reclamare un mondo totalmente aperto e poi criticare, come pure giustamente Bergoglio fa, la logica del capitalismo, la quale costituisce la massima apertura possibile poiché, sin dal fisiocratico  «laisser faire, laisser passer», niente è più aperto dei mercati, che non hanno mai avuto ‘patria’ e oggi davvero non conoscono confini, vista la loro metamorfosi digitale. In tali contraddizioni opera ancora una volta la logica monoteistica della reductio ad unum: «La sua ‘fraternità universale’ non è altro, di fatto, che un pio desiderio privo di senso, sotteso dall’ossessione dell’unico, della fusione, della scomparsa di tutto ciò che separa e dunque distingue» (Id., p. 5).
In realtà posizioni come queste -che siano espresse o meno in buona fede non conta- manifestano una delle caratteristiche più evidenti ma meno notate della società contemporanea: la proporzionalità tra il moltiplicarsi di un linguaggio compassionevole e il crescere della ferocia collettiva. Il veicolo principale e assai efficiente di questo duplice incedere è l’informazione, sia quella nuova dei Social Network sia quella tradizionale della stampa e della televisione, sempre più al traino della prima. Infatti «non soltanto i media hanno quasi abbandonato qualunque velleità di resistenza all’ideologia dominante, ma ne sono diventati i principali vettori» (Id., p. 7).
L’operare dell’informazione al completo servizio delle autorità è mostrata in questi anni in modo clamoroso dalla vicenda dell’epidemia. Se infatti è evidente che un virus esiste e colpisce -come è accaduto da sempre e sempre accadrà- è altrettanto chiaro come sia stato «facile, per le élites al potere, strumentalizzare queste circostanze a proprio profitto per colpire le libertà. Negli Stati Uniti, il Patriot Act è stato adottato per contrastare il terrorismo, dopo di che è servito a tenere al guinzaglio l’intera popolazione. Le leggi eccezionali finiscono per entrare nel diritto comune, cosicché l’eccezione diventa la regola» (Id., p. 10). Davvero

mai censura è stata più perfetta. Mai l’opinione di quelli cui si fa ancora credere, in certi paesi, che sono rimasti cittadini liberi, è stata meno autorizzata a manifestarsi, ogni volta che si tratta di una scelta che coinvolgerà la loro vita reale. Mai è stato permesso di mentire loro con una così perfetta assenza di conseguenze. Si presume semplicemente che lo spettatore ignori tutto e non meriti nulla

(Guy Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, § VIII; Baldini & Castoldi 2008, p. 203, con delle modifiche nella traduzione).
Il risultato è anche ciò che Michel Desmurget ha definito con il titolo Il cretino digitale (Rizzoli, 2020) e che prima ancora aveva descritto come TV Lobotomie. La vérité scientifique sur les effets de la télévision (J’ai Lu, 2013). Desmurget è infatti un neuroscienziato (direttore di ricerca del Cnrs francese), il quale «vede in opera meglio di chiunque altro la decerebrazione di massa operata sui giovani cervelli in fase di sviluppo e, disgustato, scortica metodicamente questo infanticidio planetario che non osa dichiararsi tale» (Jean-Henri d’Avirac, p. 39).
D’Avirac continua la sua presentazione del libro affermando che «ridurre un giovane cittadino allo stato di semplice consumatore sommerso da segni e immagini, il cervello impantanato nella dopamina, ridotto fin dalla più giovane età alla dipendenza dallo schermo, dal porno, dalla moda, è una pacchia per il sistema, la cui ossessione è togliere i freni al consumo, sospendere il senso critico e la nostra capacità di stabilire delle gerarchie. […] La lobotomia è molto più efficace della repressione» (Id. p. 40).
Rivolgendosi ai genitori, Desmurget scrive: «I vostri figli vi ringrazieranno per aver offerto alla loro esistenza la fertilità liberatrice dello sport, del pensiero e della cultura, invece della perniciosa sterilità degli schermi» (cit. a p. 40).
E invece le istituzioni educative -comprese quelle italiane- sono state pronte a gettare in braccio agli schermi gli studenti di ogni ordine e grado. Non si è trattato di una soluzione ma dell’aggravarsi di un problema, il problema -appunto- della idiozia digitale. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti -studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere- è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MSTeams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che probabilmente è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, che meglio si dovrebbe definire didattica d’emergenza, è -in questa prospettiva- l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanzaè una contraddizione in termini, perché ‘apprendere a distanza’ è una delle caratteristiche dell’idiota digitale che si vorrebbe tutti noi diventassimo: «La DAD diventa, così, un mirabile esempio di neolingua chiamata a sovvertire la realtà e ad ipotecare pesantemente il futuro dell’istituzione» (Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid: prove generali di colonizzazione digitale, in «Koinè», anno XXVII, 2020, p. 16).
La didattica del vuoto ha come orizzonte fondativo e come prospettiva futura ciò che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, la cui

video-lezione, come lezione spettrale, appiattisce quest’ultima sulla mera trasmissione di nozioni, avvicinandola così a quel sapere procedurale messo in campo dalle nuove tecnologie assai più di quanto non possa farlo la lezione in presenza, la tanto attaccata lezione frontale che permette la lenta e dialogata costruzione delle conoscenze (e dei significati) a partire dalla sollecitazione ineludibile posta dal volto dell’altro e dall’instancabile attesa -carica di tutte le sfumature di un volto umano- che ne promana (Id., p. 40).

Un maestro vuoto atto a sostituire la persona viva e socratica di colui che alla relazione pedagogica -e di conseguenza al fatto educativo- dà voce, volto, pienezza. Il maestro vuoto è il coach della palestra dell’ignoranza e della conseguente obbedienza collettiva.

[Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su corpi e politica e girodivite.it]

Contro l’umanismo

Il numero 2/2018 (uscito nel 2019) del «Giornale Critico di Storia delle Idee» si occupa Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (a cura di Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Mimesis Edizioni, pp. 312). Vi è stato pubblicato anche un mio saggio dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo, nel quale ho cercato di mostrare alcune delle ragioni per le quali l’umanitarismo è un ostacolo all’emancipazione. 

Pdf del testo (pagine 59-69)

Abstract
At the beginning of the 21st century the transhuman unfolded both as anthropocentric hyperhumanism and as anthropodecentric posthumanism. In any case, the human is and remains a zoon immersed in the Wille zum Leben and hybridized with the φύσις, with the τέχνη, with the θείος. Also for this reason every reduction of individual and collective life to the domination of the humanistic dimension risks to create a device not of emancipation but of offense to the human and to nature. Therefore we must go beyond the humanistic perspective and beyond its humanitarian declination.

Indice
1 Ibridazione e oltreumano
2 Corpi sociali e Intelligenze Artificiali
3 Parola, potere, web
4 Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo

Alcuni brani

L’innato bisogno di comunicare che caratterizza la nostra specie diventa così una preziosa e insieme abbondante materia prima. Siamo diventati non più lavoratori consapevoli della nostra identità e del conflitto sociale ma parte essenziale e primaria del prodotto generale che si vende e che si acquista. La merce principale sono i nostri stessi comportamenti sul web, a partire dai più piccoli spostamenti del mouse sino alla comunicazione dei dati privati necessari per ottenere servizi e -di più- per entrare a far parte della Rete collettiva. Sul web la nostra identità coincide con le nostre azioni ed è per questo che «se non si vede il prezzo, se è gratis, la merce sei tu. Tu, interamente, sei materia prima: tutto ciò che compone la tua identità, la tua soggettività. Non solo il tuo tempo d’attenzione, non solo un po’ dello spazio nel tuo cervello: tu, corpo e anima, anima-carne, desideri e pulsioni, sogni e relazioni, carattere in evoluzione» (Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi, 2017). Siamo il prodotto e siamo anche la moneta che serve a farlo circolare. Siamo il gioco e l’energia del fiume di parole, informazioni, richieste, scambi, immagini, suoni, in cui consiste la Rete. 

Il culto per l’individuo senza legami, per i suoi diritti universali – uguali dappertutto – e per il mercato del quale è parte attiva, passiva e intrinseca è il fondamento dell’anarco-capitalismo che fa da base alle attività delle maggiori Corporations del Web. Il libertarianesimo costituisce la forma estrema del liberalismo, quella nella quale l’individuo si illude di essere signore di se stesso ed è invece continuamente sotto il controllo di un panottico digitale la cui necessità facebook e il suo fondatore teorizzano esplicitamente, ritenendo la privacy un bisogno superato ed equivoco, da sostituire con forme di trasparenza del corpo sociale così radicali da non poter essere definite in altro modo che come trasparenza totalitaria.

Stadio contemporaneo della guerra di tutti contro tutti, l’economia digitale è una delle forme dominanti del capitalismo globalizzato che ha distrutto anche il progetto europeo, facendolo diventare una struttura soltanto mercantile e ‘umanitaria’, umanitaria in quanto mercantile. Un umanitarismo liberista dei diritti umani che ha dimenticato l’umanitarismo comunista di Karl Marx, per il quale uno degli strumenti decisivi dello sfruttamento dei lavoratori è l’«esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Das Kapital, libro I, sezione VII, cap. 23).

Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre – oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate – è probabilmente la creazione di una riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (e marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri moralistici o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta, economica. Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il dispositivo concettuale marxiano dell’esercito industriale di riserva ha ancora molto da insegnare agli umanisti liberali di sinistra che si fanno complici del Capitale senza neppure rendersene conto. Il sostegno alla globalizzazione o il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo le obsolete categorie di destra e sinistra.

«Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza -lenta o veloce- che ci condurrà alla morte» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, Il Saggiatore, 2016). Anche per questo l’umano non può pretendere nessun particolare e diverso valore dentro la φύσις. Non lo può pretendere non solo e non tanto per il destino di morte che ci accomuna a ogni altra cosa viva; non lo può soprattutto per la miopia con la quale gli umani credono di determinare con la propria volontà il loro destino. E invece le più disincantate – alla lettera ‘disumane’ – forme del sapere mostrano che siamo enti mossi da forze potenti e invincibili, al modo dei guerrieri che combattevano sotto le mura di Ilio.

Comunicazione

«Ignorano sempre più la lettura, che richiede un autentico giudizio a ogni riga; e che è l’unica attività che permette di accedere alla vasta esperienza umana prespettacolare. Perché la conversazione è quasi morta, e presto lo saranno molti di quelli che sapevano parlare»
(Guy Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, Baldini & Castoldi 2002, § X, p. 207)

Venerdì 17 novembre 2017 alle 18,00 nel Palazzo S. Anna, sede del Liceo Convitto di Modica, terrò una conferenza dal titolo La solitudine di Internet. Facebook, WhatsApp e la comunicazione immaginaria.
È il primo incontro di un ciclo dedicato al tema della comunicazione.

Abstract
Siamo sempre connessi e siamo sempre soli, con in mano il nostro dispositivo di comunicazione universale. Come si spiega questa contraddizione? Essa è una delle tante che intridono le relazioni tra esseri umani nel XXI secolo ed è una delle più pervasive, toccando persone di ogni età, cultura, condizione economica.
Anche in questo caso la riflessione filosofica può aiutarci ad andare oltre le apparenze, al di là di giudizi moralistici o di prospettive soltanto tecnologiche, per cogliere nel trionfo contemporaneo dei Social Network l’ennesima conferma del nostro essere Ζῷον λογιστικόν e πολιτικόν, animali che parlano e vivono insieme, che vivono insieme perché comunicano.

Still in Life

L’altro sguardo. Fotografe italiane (1965 -2015)
A cura di Raffaella Perna – Opere della Collezione Donata Pizzi
Milano – Palazzo della Triennale
Sino all’8 gennaio 2017

Immagini dense, importanti, belle, ironiche, classiche, lievi. Distribuite in cinque sezioni.
Dentro le storie porta lo sguardo negli anni Sessanta e Settanta. Vediamo la pena e l’infamia dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia (Carla Cerati,1968) prima che Franco Basaglia vi iniziasse la sua azione di liberazione. Chiara Samugheo ritrae Luchino Visconti (1965) in una posa che esprime molto di questo dandy tenace e malinconico. Poi Luisella Battaglia, con i suoi cadaveri palermitani che sembrano ‘sparati’ da pochi secondi. Se rimarrà qualcosa della storia della mafia siciliana nei secoli venturi, saranno probabilmente queste immagini. Giovanna Borgese documenta alcuni dei processi più celebri di quei decenni. Il suo Curcio in gabbia (1981) è il ritratto profondo di uno dei rivoluzionari e dei politici più intelligenti della storia contemporanea. Questa prima sezione della mostra è davvero assai coinvolgente.
Cosa ne pensi tu del femminismo? mi è sembrata invece una specie di ‘riserva’, come quelle nelle quali vengono relegati i nativi americani, i ‘pellerossa’.
In Identità e relazione l’arte fotografica diventa concettuale ma possiede anche risonanze mentali ed emotive. Più che fotografarle, Shobha scolpisce due baronesse di Ragusa Ibla -le signore Cultrera di Montesano- per la serie intitolata Gli ultimi Gattopardi (1992).
La mostra si chiude con Vedere oltre, con l’oltrepassamento dei confini che separano arte e fotografia. Immagini decisamente astratte, come quella di Cristina Omenetto che ritrae Pompei al modo di un sogno aritmetico, o quella assai efficace di Raffaella Mariniello, intitolata Still in Life (2014): un computer e una scrivania diventate natura morta.
Diventate quello che la Dissipatio Humani Generis produrrà inevitabilmente. La materia si riprenderà allora per intero i diritti che non ha mai ceduto.

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