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Cristianesimo e Filosofia

L’insieme degli scritti con i quali filosofi come Celso, Porfirio, Giuliano, Ierocle criticarono e confutarono  la demens superstitio -‘l’irrazionale superstizione’– dei cristiani ci è noto quasi soltanto dalle citazioni, dalle polemiche, dalle refutazioni e manipolazioni dei cristiani stessi, poiché i testi originali furono distrutti e bruciati in modo sistematico dai loro avversari.
È questo il dato al centro della ricostruzione accurata, anche se a volte ripetitiva, che Marco Zambon in «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei filosofi antichi (Carocci, 2019) conduce del tentativo attuato dai filosofi antichi, nell’età che va all’incirca da Marco Aurelio a Giustiniano (II-VI secolo),  di mostrare l’incompatibilità tra il loro mondo e la fede dei cristiani.

Filosofia e fede cristiana sono inconciliabili per tre ragioni fondamentali.
La prima concerne lo statuto della verità, che per la filosofia è una ricerca sempre aperta, svolta a partire dalla convergenza tra ciò che si osserva del mondo – il dato empirico e quello fenomenologico – e la riflessione razionale che viene condotta su di esso. Per i cristiani, invece, la verità è un dato della rivelazione al quale si accede con la fede e che rimane sempre identico, incontestabile, fuori da ogni discussione e argomentazione.
La seconda ragione riguarda lo statuto del divino, che per la filosofia è plurale e molteplice, mentre per il cristianesimo e le altre religioni del Libro è un’identità monoteistica che respinge da sé ogni differenza.
La terza ragione si riferisce allo statuto dell’umano, il quale per la filosofia ha nel mondo una specificità che non diventa mai privilegio ontologico e superiorità assiologica. Privilegio e superiorità che conducono a immaginare un dio che diventa egli stesso uomo e che persino muore tra sofferenze atroci per salvare gli umani da lui stesso condannati. Il «carattere spiccatamente antropomorfo e l’irrazionalità del loro Dio […] indicavano la natura non filosofica della religione dei cristiani» (p. 257), alla quale Celso oppone un atteggiamento ancora una volta plurale e che oggi definiremmo animalista. Il filosofo infatti, 

polemizzava contro l’antropocentrismo dei cristiani, partendo dal principio che ‘le cose tutte non sono state generate per gli uomini più che per gli animali privi di ragione’ (Cels. IV 74). Egli si sforzava, perciò, di mostrare la superiorità naturale degli animali rispetto all’uomo (dal momento che non hanno bisogno di coltivare la terra per nutrirsi, né servono loro strumenti per attaccare gli uomini e divorarli; Cels. IV 76, 78-79) e il fatto che anch’essi avessero una complessa organizzazione sociale, conoscessero  le scienze, praticassero il culto degli dèi (Cels. IV 81. 83-85. 88. 98 (p. 315).

Ai tre elementi fondamentali concernenti la verità, il divino e l’umano, si aggiungeva l’inaccettabile rozzezza concettuale e stilistica del linguaggio biblico, della quale molti tra gli stessi apologeti cristiani erano consapevoli, costituendo anche «per loro un serio ostacolo e un motivo di imbarazzo» (p. 184), che cercavano di superare con una lettura radicalmente allegorica della Bibbia; lettura della quale il maggiore sostenitore fu Origene.

Questi elementi di dottrina si coniugavano con i comportamenti pratici dei cristiani, i quali in generale «negavano ogni dignità agli dèi visibili, gli astri, e però veneravano un cadavere» (p. 99) e lo strumento che era servito al suo supplizio, la croce. In particolare, poi, i monaci, descritti dai cronachisti dell’epoca ricordano l’abbigliamento, le pratiche e la violenza dagli attuali militanti dell’Isis, ai quali li accomuna la certezza di detenere l’unica verità e una fede salvifica. Eunopio, ad esempio, «dopo aver narrato la distruzione del serapeo di Alessandria, compiuta nel 391 sotto il patriarcato di Teofilo, ‘capo dei maledetti’ (V. soph. VI 11, 2), descrive in questi termini l’occupazione del sito da parte di monaci cristiani:

6 In seguito, introdussero in quei luoghi sacri i cosiddetti ‘monaci’; uomini, per quel che riguarda l’aspetto, ma, quanto alla loro vita, maiali, che apertamente tolleravano e compivano innumerevoli cose malvagie e indescrivibili. Eppure questa pareva loro pietà: disprezzare il divino. 7. Allora, infatti, aveva un potere tirannico chiunque indossasse un abito nero ed esercitasse in pubblico una condotta indegna
(Eunopio, V. soph. VI 11, 6-7; p. 100). 

L’atteggiamento violento dei cristiani verso i loro avversari e verso i beni altrui si manifestava anche e appunto nella «violenza con la quale i monaci s’impadronivano delle terre dei contadini, dichiarandole sacre e saccheggiandole» (101).

La violenza appare talmente intrinseca alle fedi monoteistiche da esprimersi nella violenza anche verso se stessi, come risulta chiaro dalla questione delle persecuzioni verso i cristiani, le quali – tranne in pochi e circoscritti intervalli temporali – furono in realtà una invenzione degli apologeti e della storiografia cristiana.
Le leggi romane e i loro giudici furono infatti per lo più riluttanti a punire i cristiani. L’imperatore Traiano ordinò che essi non venissero cercati e non si desse seguito a denunce anonime nei loro confronti. Anche quando arrivavano a processo, le condizioni per andare assolti erano assai miti. Come molti altri, il proconsole Saturnino «chiedeva ai cristiani non di rinunciare alle proprie convinzioni, bensì di giurare ‘per il genio del nostro signore, l’imperatore’ e di offrire  ‘suppliche per la sua salute’ [Act. Mart. Cil. 1-14]; una cosa che gli sembrava del tutto ragionevole, compatibile con una sana e semplice pietà religiosa e con i doveri di un cittadino romano» (72). La risposta dei cristiani era per lo più pervasa di una fede millenaristica che li rendeva certi della imminente fine del mondo e li induceva quindi a cercare essi stessi la condanna a morte. A confermarlo è un testimone del tutto affidabile, uno dei più tenaci difensori del cristianesimo, Tertulliano, il quale scrive che «mentre Arrio Antonino in Asia li perseguitava duramente, tutti i cristiani di quella città, radunatisi insieme, si presentarono al suo tribunale. Egli allora, dopo averne fatti portare alcuni a morte, disse agli altri: ‘Miserabili, se volete morire, avete i burroni oppure impiccatevi!’ (Tert. Ad Scap. V 1)» (p. 97).
In generale, «prima di Costantino, i cristiani non sono vissuti in uno stato di persecuzione generalizzata; anzi, hanno potuto contare per lo più su un’ampia tolleranza di fatto da parte delle autorità» (359). Una volta arrivati al potere, il loro atteggiamento verso quanti continuavano a rimanere fedeli all’antica religione fu invece molto violento: distruzione sistematica dei templi e degli altri luoghi di culto pagani, incendio delle biblioteche che conservavano libri e documenti di culture millenarie, omicidi individuali e stragi collettive (cfr. Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri, 2018)

Violenza che divenne atto giuridico repressivo con l’editto emanato nel 380 a Tessalonica da Graziano, Valentiniano e Teodosio: «Ordiniamo che coloro che seguono questa legge siano compresi sotto il nome di cristiani cattolici, mentre tutti gli altri, considerandoli dissennati e folli, ordiniamo che sopportino l’infamia della loro dottrina eretica e le loro conventicole non ricevano il nome di Chiese; essi devono essere puniti anzitutto dalla vendetta divina, poi anche dalla pena comminata dalla nostra iniziativa, ispirata dalla volontà celeste (Cod. Theod. CVI 1,2 = CIC Cod. I, 1,1)» (p. 418). A questo editto si aggiunse la costituzione dell’8 novembre 392 con la quale Teodosio «vietava il culto pagano in qualsiasi forma su tutto il territorio dell’Impero (Cod. Theod. XVI 10, 10-12)» (p. 420). Violenza rivolta non soltanto ai pagani ma a chiunque non seguisse il credo cristiano come era stato stabilito nel 325 al Concilio di Nicea.
Quando Celso scrive che «‘nessun dio, o giudei e cristiani, e nessun figlio di dio è mai sceso, né potrebbe scendere quaggiù’ (Orig. Contra Celsum [Cels.] V 2)» (p. 13), questo significa anche che nessuna fede assoluta nella parola e negli insegnamenti di un uomo – tanto più se quest’uomo si presenta come un dio – può esimere il cammino umano dalla fatica del comprendere e del costruirsi. Diventare umani implica non l’accoglimento acritico «di un intervento proveniente dall’esterno, ma l’attuazione, faticosa e progressiva, della propria vera natura da parte di un’anima a ciò preparata» (296).
È anche per questo che la filosofia riemerge sempre dalle macerie delle certezze fideistiche, perché il bisogno e l’inquietudine della ricerca appartengono alla natura stessa dell’animale umano.

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Giuliano, i Discorsi

Con gli imperatori Marco Aurelio (161-180) e Giuliano (361-363) sembra realizzarsi il progetto platonico volto a coniugare filosofia e potere politico. Le opere di entrambi sono infatti una indissolubile unione di sapienza antropologica, di esperienza politica e di tensione metafisica.
Giuliano dimostra più volte di essere un esperto in umanità, la cui φρόνησις-saggezza, consiste anche nella consapevolezza che per quanti si dedicano esclusivamente alla vita politica essa diventa un vero e proprio demone, una droga, tanto che per loro «non è possibile neppure respirare, come si dice, senza di lei»  (Al filosofo Temistio, cap. 4, 256c, p. 475) 1. Essa diventa un ἦθος, un’abitudine, che si fa δευτέρη φύσις, una seconda natura, come accade a tutte le abitudini umane (Misopogon, 23, 353a, 771). E tuttavia quando la forza dell’abitudine riguarda la politica, si tratta di un comportamento poco accorto, poco saggio, dato che governare con equità ed efficacia è un’impresa quasi impossibile a causa della natura degli umani, delle aspirazioni che intorno al potere si scatenano, del limite stesso di tutte le cose. 

Disincanto che si mostra particolarmente evidente nel decimo discorso: Simposio o Saturnali. In esso la filosofia parla ancora una volta – come era accaduto con Socrate e altre volte accadrà – contro la pretesa totalizzante del  potere; circostanza tanto più rilevante poiché questa critica dell’autorità è espressa da un potente che è anche un imperatore romano. Il netto rifiuto della monarchia ereditaria da parte di Giuliano è frutto del magistero di Platone e di Aristotele ma è anche il risultato della sua stessa esperienza politica, a partire dalle autentiche nefandezze che il principio ereditario aveva prodotto nella sua stessa famiglia, quella dei costantinidi.
Disincanto che diventa amarezza nella lucida requisitoria contro la città di Antiochia, la cui pratiche politicamente corrotte ed eticamente dissolute favorirono l’adesione alle dottrine degli «atei», cioè del cristiani, e che male sopportò la presenza in essa per alcuni mesi dell’imperatore. Tanto da indurre Giuliano a chiedere agli abitanti di «questa città popolosa, godereccia e ricca» (Misopogon, 29, 358a, 779): «Perché dunque siete così ingrati?» (ivi, 43, 370c, 799) e a rispondersi in questo modo: «Il popolo, che nella maggior parte, o meglio nella sua totalità, ha scelto l’ateismo, mi odia, perché vede che mi attengo ai riti delle cerimonie dei padri; i ricchi, invece, perché vieto loro di vendere ogni cosa a gran prezzo, e tutti, infine, a causa dei ballerini e degli spettacoli, non perché io li privi di cose del genere, ma perché me ne importa meno che delle rane nelle paludi» (ivi, 28, 357d, 779).

Ai limiti che pervadono ogni elemento e impresa umana il neoplatonico Giuliano oppone la direzione della mente rivolta vero la perfezione del «cosmo divino e bellissimo», il quale «dall’eternità esiste ingenerato, nonché eterno per il tempo a venire» (A Helios Re, per Salustio, 5, 132c, 693). Al di là della forma e del linguaggio mitologici, del tutto comprensibili e colmi di senso nel contesto della filosofia del IV secolo, la prospettiva giulianea difende la razionalità della «filosofia, àmbito in cui solo gli Elleni hanno raggiunto i traguardi più alti, ricercando con la ragione la verità, come essa è per natura, senza lasciare che noi prestassimo attenzione a miti inverosimili o a prodigi assurdi, alla pari di molti fra i barbari» (Consolazione a se stessi per la partenza dell’ottimo Salustio, 8, 252b, 435).
Filosofia che è una forma di purificazione dall’assurdo, dal pianto e dalla ferocia. Filosofia la cui natura consiste nel «conoscere se stessi e assimilarsi agli dèi; il principio è conoscere se stessi, il fine l’assimilarsi agli esseri superiori» (Contro il cinico Eraclio, 19, 225d, 531), in questo modo raggiungendo l’εὐδαιμονία, la gioia.
Nonostante il suo slancio trascendente e la vicinanza alle pratiche teurgiche, in Giuliano c’è anche la consapevolezza dell’unità psicosomatica che l’ἄνθρωπος è, della quale è segnale anche un’osservazione di carattere medico come questa: «Spesso non è la debolezza del corpo, ma l’infermità dell’anima a diventare causa di debilitazione per il corpo» (Misopogon, 17, 347c, 761).
Molti elementi, quasi tutti, di questa molteplice unità che siamo, sono interamente condivisi con ogni altro vivente, in particolare con gli altri animali. Se c’è qualcosa che ci differenzia, essa è la capacità di conoscere in modo razionale il mondo e di progredire senza posa in tale conoscenza. Esattamente questo è l’elemento divino nell’umano, proprio perché «è in virtù della conoscenza che gli dèi sono superiori a noi» (Contro i cinici ignoranti, 5, 184b, 603).

Il culto verso Helios, il Sole intelligibile, e verso la Grande Madre Cibele si spiegano all’interno di questo approccio religioso e insieme teoretico alla vita. Cibele è infatti un principio che con un linguaggio non neoplatonico ma spinoziano si può ben definire della natura generatrice, la Natura naturans; Attis è il corrispondente principio della natura generata e delle sue forme, la Natura naturata. «Ritengo che questo Gallo o Attis sia la sostanza dell’intelletto generativo e demiurgico, che genera ogni cosa fino all’ultimo livello della materia e ha in sé tutti i principi e le cause delle forme materiali» (Alla Madre degli dèi, 3, 161c, 561). Come tutti i miti dei quali parla, Giuliano interpreta in modo allegorico e simbolico la vicenda dell’autoevirazione di Attis. Un racconto che sembra truce e che invece rappresenta l’antico principio della razionalità che si oppone a ogni ὕβρις.
«E l’evirazione, poi, che cos’è? L’arresto della dispersione infinita. I fenomeni generativi, infatti, si arrestarono, trattenuti dalla provvidenza demiurgica in forme definite. […]
Quando il re Attis arresta la dispersione infinita con l’evirazione, anche a noi gli dèi ordinano di ‘tagliare’ l’infinito che è in noi e di imitare le nostre guide, elevandoci verso il delimitato, l’uniforme e, se è possibile, verso lo stesso ‘Uno’» (Alla madre degli dèi, 7, 167c, 571 e 9, 169c, 575).
In questo senso, osserva giustamente la curatrice delle opere di Giuliano, l’ascesa teurgica non è da intendere «come una semplice fuga dalla materia, ma come capacità di accogliere in sé la molteplicità materiale, superandola nella tensione unificante verso il divino» (nota 181, p. 1008).

Pur con la sua passione per i sacrifici animali, della quale comunque Giuliano tenta una giustificazione anche naturalistica; pur con il suo disagio orfico a stare dentro il proprio corpo; pur con la paradossale ma anche significativa vicinanza all’ascetismo dei «Galilei», l’imperatore filosofo conferma in ogni sua pagina l’appartenenza alla filosofia classica, alla suo piena razionalità, alla sua profonda serenità.
A testimoniarlo è anche l’augurio che formula per se stesso nella preghiera che conclude l’inno a Cibele: «una fine priva di dolore e gloriosa; βίου πέρας ἄλυπόν τε και εὐδόκιμον» (20, 180c, 595). Auspicio migliore non potrebbe darsi per degli enti la cui struttura è πέρας, limite, è l’essere per la morte.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Discorsi (pagine 191-801). Le indicazioni bibliografiche delle opere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

 

[L’immagine di apertura è del fotografo Giuseppe Lo Schiavo, che ringrazio per avermi concesso l’autorizzazione a riprodurla. Si intitola Daphne and the Ocean (2023) e fa parte di una serie che si può ammirare qui: Windowscapes]

 

Giuliano, le Lettere

L’imperatore Giuliano amava scrivere quasi quanto amava leggere. Portava con sé ovunque dei libri, in particolare Omero e Platone, anche durante le campagne militari. E al prefetto d’Egitto Ecdicio conferma che se «alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, è entrato dentro, fin da piccolo, un desiderio struggente di possedere dei libri» (lettera 107; Antiochia, fine luglio-agosto 362, 377d-378a, p. 141) 1.
Lettura e scrittura fanno il primato dello studio su ogni altra attività umana, tanto che – ricorda a Eumenio e a Fariano – «se qualcuno vi ha fatto credere che per gli uomini esiste qualcosa di più gradevole e utile del filosofare in tranquillità e al riparo da pubbliche incombenze, costui, ingannato, vi inganna a sua volta» (lettera 8: Gallia, fine 358-fine 359,  441b, p. 5) e raccomandando loro di dedicarsi con particolare cura allo studio di Platone e di Aristotele.

Tra i suoi scritti, le molte lettere inviate sia come privato sia prima come Cesare e poi come Augusto rappresentano una parte significativa del suo pensiero. Che infatti Giuliano si occupi di questioni personali o pubbliche, ha sempre davanti a sé la κοινοῦ τών Ἕλλήνων, la comunità degli Elleni, alla quale rivolgersi per confrontarsi, per guidarla, per delineare e vivere insieme la παιδείαν ορθην, la retta educazione tramite la quale restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo.
L’unicità dell’imperatore Giuliano consiste esattamente e anzitutto in questo, nel modo con il quale pensò e – sino a che visse – realizzò il progetto di ricostituzione e rinascita dell’Ellenismo. Un modo unico perché esplicitamente volto a utilizzare il λόγος, la parola, la persuasione, e non l’autorità, la violenza, la costrizione. Metodi questi utilizzati da alcuni imperatori prima di lui e soprattutto dai cristiani prima e dopo il suo breve regno (dal 361 al 363). Giuliano ha piena consapevolezza sia dell’obiettivo e sia del metodo filosofico e non violento con il quale raggiungerlo: «Io non voglio né che i Galilei vengano messi a morte, né che siano ingiustamente colpiti, né che subiscano qualche altro male» (lettera 83 ad Artabio; Antiochia, luglio-dicembre 362, 376e, p. 85), anche perché ritiene che l’ateismo dei cristiani negatori degli dèi e il fanatismo che caratterizza le loro azioni siano espressioni patologiche di menti inquiete e senza misura, costituiscano più una malattia che altro. Essa andrebbe dunque curata e non punita.
Tra questi comportamenti c’è la loro tendenza (documentata da innumerevoli fonti antiche e dagli studi moderni) a «impadronirsi delle eredità degli altri e accaparrarsi di ogni cosa» (lettera 114 ai cittadini di Bostra; Antochia, calende di agosto 362,  437a, p. 153). E c’è soprattuto il bisogno – anch’esso ampiamente documentato – di morire, di farsi uccidere dalle autorità imperiali in modo da ottenere subito la palma del martirio e il conseguente paradiso: «Molti degli atei sono ossessionati e persuasi a morire, perché – essi pensano – voleranno in cielo, una volta staccati violentemente dalla vita» (lettera 89b a Teodoro, sommo sacerdote; Antiochia, marzo 363,  288 a-b, p. 99).
Nonostante tali e altri inquietanti comportamenti, Giuliano non esercita nessuna violenza contro i cristiani, i quali appunto 

per ignoranza più che per convinzione si sono sviati. È con la ragione che bisogna convincere e istruire gli uomini, non con le percosse, gli insulti e i supplizi corporali. Perciò, ancora e ripetutamente invito coloro che aspirano a una devozione autentica a non commettere ingiustizia contro le moltitudini dei Galilei, a non attaccarle, a non recare loro offesa. Bisogna avere compassione piuttosto che odio per coloro che sono così sfortunati proprio in quello che c’è di più importante (ancora ai cittadini di Bostra, 438b-c, p. 155). 

Sintetizzando con chiarezza le linee della sua politica verso i cristiani, l’imperatore scrive che «mi sono comportato verso tutti i Galilei con tanta mitezza e umanità che nessuno di loro in nessun luogo ha mai subito violenza, è stato trascinato al tempio o minacciato perché facesse, contro la sua volontà, cose del genere», mentre i Galilei esercitano continuamente violenza anche reciproca, contro i loro correligionari definiti ‘eretici’: «Invece i membri della Chiesa ariana, resi arroganti dalla loro ricchezza, hanno aggredito i seguaci di Valentino, e hanno osato commettere a Edessa infamie quali mai dovrebbero verificarsi in una città ben ordinata» (lettera 115 agli Edesseni [l’attuale Odessa, in Crimea]; Antiochia, fine ottobre-metà novembre 362; 428c-d, pp. 155-156). Valentino e i suoi seguaci furono una delle più importanti e influenti comunità gnostiche, perseguitate appunto dai cattolici e dagli altri cristiani.

Il veleno dell’intolleranza cristiana contaminò comunque persino Giuliano inducendolo a proibire non i testi dei cristiani o degli ebrei ma quello di altri Elleni, di alcune filosofie da lui ritenute inaccettabili: «Non sia ammessa la dottrina di Epicuro, né quella di Pirrone; già infatti – e hanno fatto bene! – gli dèi hanno anche distrutto le loro opere, cosicché la maggior parte di esse è scomparsa» (ancora a Teodoro, 301c, p. 119).
Al di là di questa debolezza, di tale cedimento allo spirito violento contro le filosofie introdotto dalle lotte cristiane per l’ortodossia, Giuliano mostra la serenità di chi sente vicino a sé il divino, mostra il disincanto di chi ha ben compreso la natura inemendabile della vita, il suo limite. A coloro tra gli Elleni che provano angoscia per la distruzione dei templi greci operata dai Galilei, l’imperatore ricorda che quanto 

è stato realizzato da un uomo saggio e buono può essere distrutto da uno malvagio e ignorante; invece, le immagini viventi, stabilite dagli dèi, della loro sostanza invisibile, cioè gli dèi che si muovono in circolo per il cielo, rimangono eterne per sempre. Nessuno, dunque, perda la fede negli dèi, vedendo e ascoltando che alcuni hanno fatto violenza alle loro statue e ai loro templi (ancora a Teodoro, 295a, pp. 109-110).

Il disincanto sulla condizione umana è ben mostrato da due brani di una lettera ritenuta spuria ma che in ogni caso esprime efficacemente lo spirito dell’imperatore. Il quale ricorda a Imerio, prefetto d’Egitto, che al dolore insistito e inconsolabile di Dario per la morte della sua amata compagna, Democrito promise «che se avesse fatto scrivere sulla tomba della moglie i nomi di tre persone mai sfiorate dal dolore, subito ella sarebbe ritornata in vita. […] Dario rimase a lungo in imbarazzo, non potendo trovare alcuno cui non fosse capitato anche di soffrire qualche dolore; allora Democrito, sorridendo, secondo la sua abitudine, disse…» (lettera 201, 413b-c, p. 185).
La lettera si conclude affermando che «sarebbe una vergogna per la ragione se non avesse la stessa forza del tempo» (ibidem), sarebbe una vergogna che quanto il tempo in ogni caso consegue, l’attenuazione del dolore, non si cercasse di raggiungerlo già nel presente con la forza del pensare.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Le Lettere (pagine 1-189). Le indicazioni bibliografiche delle lettere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

Essere pagani

Il paganesimo «renaït éternellement à lui-même»1.
Lo fa dove meno lo si attende e nelle forme più diverse poiché «à chacune de leurs renaissances, les dieux se métamorphosent» (Dominique Pradelle, 80). Anche per questo una formula più corretta è ‘paganesimi’, al plurale. Questa ancestrale e antica modalità di intendere la vita e il mondo è infatti per sua essenza plurale, aperta, cangiante, rispettosa della varietà delle forme. Ciò che accomuna i paganesimi è un radicale immanentismo per il quale il dio, i divini, non abitano altrove, non sono il totalmente altro ma costituiscono la manifestazione, il senso, il timore e la gioia d’esserci. Ciò che li accomuna è, in una parola, il sacro: «Dans la philosophie païenne, c’est le divine qui est englobé par le sacré, ce sont les dieux qui procèdent du monde (de l’ ‘être’) et non l’inverse» (Guillaume Faye, 52). È un sentimento del sacro che rifiuta i dualismi, a partire dal dualismo che fonda, esprime e dà identità al giudeo-cristianesimo, «la distinction de l’être créé (le monde) et de l’être incréé (Dieu)» (Alain de Benoist, 13).
In quanto ‘creato’, il mondo è non soltanto diverso dal ‘creatore’ ma gli è naturalmente del tutto inferiore: l’Origine è necessaria, immutabile, eterna; l’originato è contingente, mutevole, finito. L’angoscia che un simile dualismo produce negli umani, che sanno di essere parte del creato e quindi mortali, induce a collocare l’unico luogo e strumento di possibile contatto con l’Originario non nella potenza della materia ma nello spazio dell’interiorità, nella psiche.
In questo modo una delle tante manifestazioni del mondo, il corpomente umano trasformato in anima e quindi ulteriormente impoverito, assume una rilevanza e una centralità del tutto fantasiose, origine ovviamente di ogni pretesa e violenza antropocentrica sul mondo, origine dunque della distruzione. L’obiettivo di tale antropocentrismo psicologico ed esistenziale è la salvezza individuale. Idea, questa, del tutto assente nei paganesimi.
Aver trasformato l’altrove del divino e il qui dell’anima nel luogo della salvezza ha privato di senso, dignità e sacralità il mondo. Nelle sue origini indoeuropee, la parola «dio» si riferisce al cielo, alla grandiosa potenza che gli umani sentivano sovrastare e tessere le loro notti immense e splendenti. Dunque divino è il cielo, è la notte, sono gli astri, è la materia. La vittoria dei monoteismi biblici ha dissolto e infine cancellato questo profondo significato del divino, sostituendolo con delle versioni più o meno esagerate della psiche umana. Dio è diventato una sorta di superuomo (‘il Padre Eterno’) che c’è da sempre, che non muore mai, che sa fare tutto ma che condivide ira, desiderio, gelosie e tutte le altre caratteristiche che il libro ebraico-cristiano attribuisce a Jahvé. Si comprende che i veri atei sono i cristiani, che hanno tolto ogni sacralità al mondo.

Un altro elemento che rende incommensurabili politeismi e monoteismi è il fatto che nei paganesimi la moralità non ha come condizione una qualche regola dettata dal dio – il Decalogo o altro – ma nasce dal rispetto verso la natura che è parte fondamentale dei paganesimi. Una morale prescrittiva, leguleia, minacciosa, passiva ed eteronoma come quella praticata da ebrei, cristiani e islamici, è del tutto assente nell’orizzonte politeistico. I comportamenti dei pagani rispettano o non rispettano le cose in relazione al proprio carattere ed esperienza e non in nome di ordini provenienti dal ‘totalmente altro’.
Uno degli effetti più tragici è che mentre il realismo etico antico sa che l’effetto della benevolenza e della dedizione si stempera e dissolve con la distanza e l’estraneità – mettendo dunque al centro delle relazioni l’amicizia -, il velleitarismo morale cristiano impone invece l’amore universale, il cui effetto è disastroso poiché l’impossibilità di un simile ‘amore’ verso tutti – per tacere di quello verso i ‘nemici’ –  induce a giustificarsi continuamente con se stessi e a inventare tutta una casistica comportamentale che di fatto dissolve ogni sincerità e ogni possibilità di relazioni corrette tra le persone.

Essere pagani nel XXI secolo non ha nulla a che vedere con miti regressivi, con culti New Age di vario tipo, con esoterismi e occultismi privi di senso e francamente bizzarri, con l’adesione a ‘chiese pagane’ che con le loro gerarchie e testi sacri rappresentano la brutta copia di quelle cristiane, pretendendo adesioni dottrinararie del tutto aliene dai paganesimi. Essere pagani oggi significa, come sempre, percorrere «une voie sévère, à la fois poétique et spartiate, une colonne vertebrale et un souffle – le pneuma des anciens Grecs» (Christopher Gérard, 103).
Per comprendere e vivere tutto questo è assai feconda la distinzione formulata da Michel Onfray, filosofo materialista e anarchico, tra paganesimi e politeismi. I primi costituiscono delle religioni dell’immanenza «en vertu de laquelle l’homme n’est pas séparé de la nature ou du cosmos, mais partie prenante au même titre qu’un ruisseau ou qu’une forêt»; il politeismo poi «associe ces forces à des divinités. Le paganisme est une sagesse philosophique ; le polythéism, le début de la sagesse religieuse» (66).
Essere pagani significa cercare di vivere con misura e con gioia, consapevoli dei limiti dell’esistere e pronti però a coglierne le tante possibilità.


Nota
1. Pascal Eysseric, in Sagesses païennes «Éléments pour la civilisation européenne», numero hors-série, n. 1 – Juin 2022, p. 3. Indicherò tra parentesi nel testo i successivi riferimenti agli autori e ai numeri di pagina della rivista.

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