Skip to content


Buoni sentimenti

L’imprevedibile viaggio di Harold Fry
(The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry)
di Hettie MacDonald
Gran Bretagna, 2023
Con: Jim Broadbent (Harold Fry), Penelope Wilton (Maureen), Earle Cave (David Fry), Linda Bassett (Queenie)
Trailer del film

Quanto bisogno hanno gli umani di sentirsi buoni. Di sentirsi e apparire sinceri, bravi, corretti, accoglienti, onesti, dolci. Un bisogno che ha naturalmente anche origini filogenetiche, in modo da temperare un poco l’innata e indispensabile aggressività che spesso tracima in esplicita violenza e altrettanto spesso in ferocia, azioni estreme e persino sadismo. Dato che la paura di un Grande Padre che punisca i bambini cattivi non è alla fine sufficiente, si inventano idee e soprattutto autorappresentazioni che ci rassicurino sulla nostra indole in fondo non tanto malvagia. Esistono raffinatissime e più o meno razionali versioni di questa immaginazione (l’antropologia di Rousseau, ad esempio) e poi esistono opere del tutto finte come questo Unlikely Pilgrimage of Harold Fry. Pilgrimage, pellegrinaggio, e non viaggio come recita il sempre banalizzante titolo italiano. Un pellegrinaggio unlikely, improbabile e non imprevedibile, che non è la stessa cosa. 

È infatti improbabile, davvero improbabile, che un pensionato abitudinario e poco camminatore di una qualsiasi cittadina inglese dopo aver ricevuto da una sua vecchia collega la notizia che lei si trova in un ospedale nella fase terminale di un tumore, decida di colpo di mettersi in cammino per andare a trovarla a 800 chilometri di distanza, un cammino a piedi (un pellegrinaggio appunto) nato dalla fede che sin quando Harold camminerà per raggiungerla, l’amica Queenie non morirà. Durante questa improbabile camminata, Harold si trova ovviamente in condizioni molto critiche ma viene accolto da una signora che gli offre dell’acqua dicendogli quanto sia bello avere dei figli; viene amorosamente curato da un medico (femmina) immigrato che per vivere fa le pulizie; incontra in un bar un maturo omosessuale che gli chiede consiglio su come agire con il proprio amante giovane e povero; viene fotografato e diventa la star dei buoni sentimenti televisivi, tanto che un giovane ex tossico e poi molte altre persone si uniscono a lui (in una versione New Age di Forrest Gump), scegliendolo come guru. Alla fine, però, Harold arriva da solo al capezzale dell’amica, le regala un cristallo dal quale vengono illuminati – in una scena tra le più finte e fasulle che abbia visto al cinema – la donna del bicchiere d’acqua, il medico immigrato, l’omosessuale.

Harold attraversa, in un itinerario poco picaresco e abbastanza selvaggio, buona parte dell’Inghilterra, sino ai confini con la Scozia. Attraversa quindi le terre e le città della nazione che ha inventato il colonialismo e la schiavitù moderne, che ha esportato l’imperialismo al di là dell’Atlantico con la sua gemmazione statunitense, che rimane serenamente fedele alla sua storia con la piena complicità nei massacri in corso in Ucraina e a Gaza. Ma non intendo soffermarmi su questo aspetto storico, che pure è significativo.
The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry è veramente emblematico di altro, è emblematico di una ideologia tanto autoritaria e distruttiva quanto più si presenta buona e brava. I personaggi sono centellinati con la bilancia del farmacista: QB per i neri, le donne islamiche con il velo, gli immigrati, i tossici, con una robusta dose di anziani che nelle loro vite hanno fallito ma che suscitano tanta compassione. Più di tutti ha fallito Harold. La vera ragione del suo pellegrinaggio, si scopre a poco a poco, non è la sopravvivenza della collega Queenie ma la vicenda del figlio David, che compare a intervalli regolari nel film con tutto il peso della sua memoria. Ragione che Harold dichiara in modo aperto quando, arrivato a destinazione, comincia a piangere e a ripetere «Voglio mio figlio, voglio mio figlio». È un atroce senso di colpa a guidare questo personaggio. La colpa sulla quale vivono e prosperano tutti i poteri immanenti e trascendenti, temperata da affermazioni quali: «La fede può ottenere qualunque cosa» (testuale, un personaggio dice proprio questo).

Sentimento di colpa che si coniuga al sentimento della morte, che nella nostra povera civiltà di depressi è rifiutata, taciuta oppure posta al centro delle decisioni politiche, perché la salute è tutto e non bisogna morire, non bisogna proprio; la morte è un disdicevole scandalo, un comportamento inammissibile. Degli umani che arrivano a questo, a combattere strenuamente contro la loro stessa natura di enti finiti, e il cui solo accenno alla morte li terrorizza, sono destinati a una vita ben triste, come appunto è quella di Harold.
Ma questo non è affatto l’unico modo di essere umani e di rimanere vivi. Tantomeno è un modo inevitabile e naturale. Ci sono state e ci sono intere e grandi culture, quelle orientali ad esempio, nelle quali e per le quali morire è naturale quanto vivere. Anche l’Europa una volta è stata così. Diogene Laerzio racconta (ma è soltanto uno dei tanti episodi e detti di questo tenore) che quando ad Anassagora annunciarono la morte dei figli la risposta fu «Sapevo di averli generati mortali» (I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Anassagora, DK A 1; p. 557). L’abisso che ci separa da un simile sentimento della vita, sostituito da patetici e fasulli ‘buoni sentimenti’, è indice e segno assai chiaro di un tramonto.

Giuliano, i Discorsi

Con gli imperatori Marco Aurelio (161-180) e Giuliano (361-363) sembra realizzarsi il progetto platonico volto a coniugare filosofia e potere politico. Le opere di entrambi sono infatti una indissolubile unione di sapienza antropologica, di esperienza politica e di tensione metafisica.
Giuliano dimostra più volte di essere un esperto in umanità, la cui φρόνησις-saggezza, consiste anche nella consapevolezza che per quanti si dedicano esclusivamente alla vita politica essa diventa un vero e proprio demone, una droga, tanto che per loro «non è possibile neppure respirare, come si dice, senza di lei»  (Al filosofo Temistio, cap. 4, 256c, p. 475) 1. Essa diventa un ἦθος, un’abitudine, che si fa δευτέρη φύσις, una seconda natura, come accade a tutte le abitudini umane (Misopogon, 23, 353a, 771). E tuttavia quando la forza dell’abitudine riguarda la politica, si tratta di un comportamento poco accorto, poco saggio, dato che governare con equità ed efficacia è un’impresa quasi impossibile a causa della natura degli umani, delle aspirazioni che intorno al potere si scatenano, del limite stesso di tutte le cose. 

Disincanto che si mostra particolarmente evidente nel decimo discorso: Simposio o Saturnali. In esso la filosofia parla ancora una volta – come era accaduto con Socrate e altre volte accadrà – contro la pretesa totalizzante del  potere; circostanza tanto più rilevante poiché questa critica dell’autorità è espressa da un potente che è anche un imperatore romano. Il netto rifiuto della monarchia ereditaria da parte di Giuliano è frutto del magistero di Platone e di Aristotele ma è anche il risultato della sua stessa esperienza politica, a partire dalle autentiche nefandezze che il principio ereditario aveva prodotto nella sua stessa famiglia, quella dei costantinidi.
Disincanto che diventa amarezza nella lucida requisitoria contro la città di Antiochia, la cui pratiche politicamente corrotte ed eticamente dissolute favorirono l’adesione alle dottrine degli «atei», cioè del cristiani, e che male sopportò la presenza in essa per alcuni mesi dell’imperatore. Tanto da indurre Giuliano a chiedere agli abitanti di «questa città popolosa, godereccia e ricca» (Misopogon, 29, 358a, 779): «Perché dunque siete così ingrati?» (ivi, 43, 370c, 799) e a rispondersi in questo modo: «Il popolo, che nella maggior parte, o meglio nella sua totalità, ha scelto l’ateismo, mi odia, perché vede che mi attengo ai riti delle cerimonie dei padri; i ricchi, invece, perché vieto loro di vendere ogni cosa a gran prezzo, e tutti, infine, a causa dei ballerini e degli spettacoli, non perché io li privi di cose del genere, ma perché me ne importa meno che delle rane nelle paludi» (ivi, 28, 357d, 779).

Ai limiti che pervadono ogni elemento e impresa umana il neoplatonico Giuliano oppone la direzione della mente rivolta vero la perfezione del «cosmo divino e bellissimo», il quale «dall’eternità esiste ingenerato, nonché eterno per il tempo a venire» (A Helios Re, per Salustio, 5, 132c, 693). Al di là della forma e del linguaggio mitologici, del tutto comprensibili e colmi di senso nel contesto della filosofia del IV secolo, la prospettiva giulianea difende la razionalità della «filosofia, àmbito in cui solo gli Elleni hanno raggiunto i traguardi più alti, ricercando con la ragione la verità, come essa è per natura, senza lasciare che noi prestassimo attenzione a miti inverosimili o a prodigi assurdi, alla pari di molti fra i barbari» (Consolazione a se stessi per la partenza dell’ottimo Salustio, 8, 252b, 435).
Filosofia che è una forma di purificazione dall’assurdo, dal pianto e dalla ferocia. Filosofia la cui natura consiste nel «conoscere se stessi e assimilarsi agli dèi; il principio è conoscere se stessi, il fine l’assimilarsi agli esseri superiori» (Contro il cinico Eraclio, 19, 225d, 531), in questo modo raggiungendo l’εὐδαιμονία, la gioia.
Nonostante il suo slancio trascendente e la vicinanza alle pratiche teurgiche, in Giuliano c’è anche la consapevolezza dell’unità psicosomatica che l’ἄνθρωπος è, della quale è segnale anche un’osservazione di carattere medico come questa: «Spesso non è la debolezza del corpo, ma l’infermità dell’anima a diventare causa di debilitazione per il corpo» (Misopogon, 17, 347c, 761).
Molti elementi, quasi tutti, di questa molteplice unità che siamo, sono interamente condivisi con ogni altro vivente, in particolare con gli altri animali. Se c’è qualcosa che ci differenzia, essa è la capacità di conoscere in modo razionale il mondo e di progredire senza posa in tale conoscenza. Esattamente questo è l’elemento divino nell’umano, proprio perché «è in virtù della conoscenza che gli dèi sono superiori a noi» (Contro i cinici ignoranti, 5, 184b, 603).

Il culto verso Helios, il Sole intelligibile, e verso la Grande Madre Cibele si spiegano all’interno di questo approccio religioso e insieme teoretico alla vita. Cibele è infatti un principio che con un linguaggio non neoplatonico ma spinoziano si può ben definire della natura generatrice, la Natura naturans; Attis è il corrispondente principio della natura generata e delle sue forme, la Natura naturata. «Ritengo che questo Gallo o Attis sia la sostanza dell’intelletto generativo e demiurgico, che genera ogni cosa fino all’ultimo livello della materia e ha in sé tutti i principi e le cause delle forme materiali» (Alla Madre degli dèi, 3, 161c, 561). Come tutti i miti dei quali parla, Giuliano interpreta in modo allegorico e simbolico la vicenda dell’autoevirazione di Attis. Un racconto che sembra truce e che invece rappresenta l’antico principio della razionalità che si oppone a ogni ὕβρις.
«E l’evirazione, poi, che cos’è? L’arresto della dispersione infinita. I fenomeni generativi, infatti, si arrestarono, trattenuti dalla provvidenza demiurgica in forme definite. […]
Quando il re Attis arresta la dispersione infinita con l’evirazione, anche a noi gli dèi ordinano di ‘tagliare’ l’infinito che è in noi e di imitare le nostre guide, elevandoci verso il delimitato, l’uniforme e, se è possibile, verso lo stesso ‘Uno’» (Alla madre degli dèi, 7, 167c, 571 e 9, 169c, 575).
In questo senso, osserva giustamente la curatrice delle opere di Giuliano, l’ascesa teurgica non è da intendere «come una semplice fuga dalla materia, ma come capacità di accogliere in sé la molteplicità materiale, superandola nella tensione unificante verso il divino» (nota 181, p. 1008).

Pur con la sua passione per i sacrifici animali, della quale comunque Giuliano tenta una giustificazione anche naturalistica; pur con il suo disagio orfico a stare dentro il proprio corpo; pur con la paradossale ma anche significativa vicinanza all’ascetismo dei «Galilei», l’imperatore filosofo conferma in ogni sua pagina l’appartenenza alla filosofia classica, alla suo piena razionalità, alla sua profonda serenità.
A testimoniarlo è anche l’augurio che formula per se stesso nella preghiera che conclude l’inno a Cibele: «una fine priva di dolore e gloriosa; βίου πέρας ἄλυπόν τε και εὐδόκιμον» (20, 180c, 595). Auspicio migliore non potrebbe darsi per degli enti la cui struttura è πέρας, limite, è l’essere per la morte.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Discorsi (pagine 191-801). Le indicazioni bibliografiche delle opere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

 

[L’immagine di apertura è del fotografo Giuseppe Lo Schiavo, che ringrazio per avermi concesso l’autorizzazione a riprodurla. Si intitola Daphne and the Ocean (2023) e fa parte di una serie che si può ammirare qui: Windowscapes]

 

Eu

Premonitions
(Solace)
di Afonso Poyart
USA, 2015
Con: Anthony Hopkins (John Clancy), Jeffrey Dean Morgan (Joe Merriwether), Abbie Cornish (Katherine Cowless), Colin Farrell (Charles Ambrose)
Trailer del film

Premonitions è un film modesto ma parla di un tema essenziale e su tale tema bisogna concentrarsi, non sullo spettacolo un poco ripetitivo e scontato. Ne parla sotto l’apparenza di un thriller con al centro un serial killer che uccide senza infliggere alcuna sofferenza e senza lasciare nessuna traccia. Scoraggiati e depressi, i poliziotti si rivolgono a un medico che dal contatto con le vittime o con degli oggetti a loro appartenuti ‘vede’ la scena del delitto. Il dottor Clancy si rende ben presto conto che la persona che stanno cercando possiede la stessa sua capacità di vedere nel passato e nel futuro ma in misura molto più profonda e ricca. Trovarlo non sarà facile, anzi è impossibile. Se accade è perché Charles Ambrose (questo il suo nome) accetta di svelarsi. Altro non si può dire sulla trama se non che i due – Clancy e Ambrose – condividono anche un altro elemento, che è la pietà verso chi, malato inguaribile o terminale, è o sarà sottoposto a sofferenze indicibili. Entrambi sembrano insomma portatori di εὐθανασία, di una morte serena.
Εὐ è un prefisso che nella lingua greca indica qualcosa di positivo, di bello, di buono. Applicato al termine θάνατος esprime l’augurio che i mortali da sempre rivolgono a se stessi di una «buona morte», del fatto che l’inevitabile non venga preceduto da sofferenze lunghe e più o meno insostenibili ma si verifichi nel modo più sereno possibile. In questo senso è assai più corretto (more solito) il titolo originale del film: Solace, conforto, consolazione, sollievo.
Il morire è un tema centrale della filosofia e della vita. A esso il film ne affianca un secondo altrettanto denso e fondamentale: il determinismo, il libero arbitrio. Se esistono delle persone capaci non soltanto di ‘vedere’ ciò che è accaduto senza che loro fossero presenti ma soprattutto di ‘vedere’ qualcosa che ancora non si è verificato ma che si verificherà; se la capacità di pre-vedere si esplica verso l’oggettività di ciò che accadrà, qual è la natura delle decisioni che i soggetti coinvolti ritengono di liberamente compiere? Qual è lo spazio della loro libertà e autodeterminazione? Nessuno, evidentemente. Infatti, «ὃ χρὴ γὰρ οὐδεὶς μὴ χρεὼν θήσει ποτέ; nessun uomo potrà mai fare in modo che ciò che deve non debba accadere» (Euripide, Eracle, v. 311, trad. di Filippo Maria Pontani).
Gli eventi accadono con la stessa necessità che spinge un sasso lanciato da qualcuno a rallentare la propria corsa e poi cadere. Se quel sasso avesse la capacità di pensare, riterrebbe di essersi mosso liberamente e di altrettanto liberamente raggiungere o non raggiungere un obiettivo. L’esempio non è mio ma è di Spinoza, il quale mostra che ogni ente è determinato a esistere e ad agire da un insieme ben preciso di cause. L’illusione della libertà nasce dalla consapevolezza degli scopi per i quali si agisce e dall’ignoranza delle cause che spingono a indirizzarsi proprio verso quegli scopi e non verso altri.
E dunque

«si per hominem coactum intelligit eum, qui invitus agit, concedo nos quibusdam in rebus nulla tenus cogi, hocque respectu haber liberum arbitrium; Sed si per coactum intelligit, qui quamvis non invitus, necessario tamen agit (ut supra explicui) nego nos aliqua in re liberos esse»;
«se per uomo costretto intende quello che agisce contro il proprio volere, concedo che in certe cose non siamo affatto costretti e che, in questo senso, siamo dotati di libero arbitrio. Ma se per costretto intende colui che agisce per necessità, benché non contro la sua volontà (come ho spiegato sopra) nego che noi siamo liberi in qualche cosa»
(Epistolæ, in «Tutte le opere», a cura di A. Sangiacomo, Bompiani 2011, Lettera 58 del 1674 a Giovanni Ermanno Schuller, pp. 2112-2113).

Una buona morte è frutto anche di una buona vita. E la vita diventa migliore se non la riempiamo di illusioni sul bene, sul male, sulla libertà, sulla colpa ma viviamo con la saggezza delle foglie che sgorgano dall’albero della materia in tutto lo splendore della loro vitalità e colore e poi cadono con la leggerezza di ciò che ha compiuto il proprio percorso nel tempo. Senza rimpianti, senza nostalgia, senza terrori. Εὐ.

Il corpo, la guerra

Mito e guerra in James Hillman
in Dialoghi Mediterranei
n. 59, gennaio-febbraio 2023
pagine 46-52

Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan

Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.

Marcosebastiano Patanè su Disvelamento

Marcosebastiano Patanè

Dissipatio e resistenza. Nella luce di un virus
L’articolo presenta e analizza Disvelamento. Nella luce di un virus
in il Pequod, anno 3, numero 6, dicembre 2022
pagine 12-21

«Disvelamento. Nella luce di un virus è un esempio di teoresi filosofica orientata alla resistenza, resistenza al terrore/potere che ormai governa solo in virtù di un’emergenza dalle mille forme, economica, sanitaria, umanitaria, politica, climatica, e che così facendo non manca di ricordare ogni giorno attraverso i suoi organi di comunicazione, il più potente dei quali rimane la televisione, chi è il vero padrone, a chi è necessario che si sacrifichi ogni cosa.
[…]
La filosofia conosce benissimo la continuità tra la Vita e la Morte e sa altrettanto bene che la volontà di cancellare la Morte dal continuum diveniente dell’Intero materico costituisce un atto di ϋβρις imperdonabile, il desiderio degli umani di annullare la differenza e installarsi nell’eternità dell’identico».

Un elegante morire

Living
di Oliver Hermanus
Gran Bretagna, 2022
Con: Bill Nighy (Williams), Aimee Lou Wood (Margaret Harrisen), Tom Burke (Sutherland)
Trailer del film

Tratto dall’omonimo film di Akira Kurosawa (1952), scritto da Kazuo Ishiguro, interpretato da attori veramente british, primo dei quali il protagonista Bill Nighy, Living riesce a trasmettere il pulsare della vita in due strutture che sembrano negarla.
La prima è una burocrazia che gira a vuoto negli uffici del Comune di Londra formalmente inappuntabili ma di fatto pigri, incapaci, incompetenti, i quali respingerebbero all’infinito la semplice richiesta di alcune madri di trasformare un fatiscente cortile in un piccolo parco giochi per bambini. Parco che viene realizzato solo quando il responsabile dell’ufficio dei lavori pubblici, Mr. Williams, prende nelle mani e nel cuore la pratica e testardamente agisce, implora, ordina che il parco venga realizzato. La cosa appare ancor più stravagante in quanto Mr. Williams è una persona gelida, solitaria, riservata e priva di emozioni. Tanto che una giovane impiegata lo ha definito Mr. Zombi.
Il carattere di questo signore è il secondo elemento che sembra appunto negare ogni vita. Ma tutto muta quando Mr. Williams riceve una diagnosi infausta. È a quel punto, un punto temporale, che il bisogno animale di vita riemerge ed esplode – per quanto possa farlo nella Londra perbenista degli anni Cinquanta – attraverso decisioni, pratiche, relazioni, sorrisi, lacrime. La giovane collega precaria che lo ha definito zombi diventa la sua amica, confidente, complice.
Chi sta intorno a Mr. Williams, che a nessun altro confida il proprio male, non capisce che cosa stia accadendo. Ma è bastata la tenacia che conduce alla realizzazione del parco giochi per fare di quest’uomo e della sua memoria un movimento ancora vivo nell’altalena che oscilla sotto la neve e sulla quale il film si chiude.
Un racconto esistenziale narrato al modo dei vecchi film: raffinato, cromaticamente irrealistico, capace di andare senza pregiudizi e senza mode (uno dei rari film contemporanei in cui non appaiono neri, militanti gender e omosessuali) al cuore della vita, della sua precarietà assoluta, del suo esserci come attesa e come memoria, come futuro che nel presente si fa passato.

Dentro l’acqua

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Overload
di Daniele Villa
in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini
produzione e regia Sotterraneo

È difficile rinnovare il teatro ed è anche facile. Il teatro è infatti cosa viva, è una sonda sensibilissima del tempo in cui accade, è molteplicità di umani che recitano, di testi già scritti, di tecnologie sempre nuove, di cangianti modalità di fruizione. Ed è difficile perché si tratta sempre della messa in scena del mondo, di un esplicito artificio che pretende però di essere verosimile, di essere creduto.
Sotterraneo riesce nell’impresa mettendo in scena l’acqua. Sì, l’acqua della quale parla una celebre storiella di David Foster Wallace (1962-2008) su un pesce anziano che incontra due pesci giovani e li saluta chiedendo loro: «Ciao ragazzi, com’è oggi l’acqua?». I due pesci proseguono il loro cammino e dopo un po’ uno dei due chiede all’altro «Ma che diavolo è l’acqua?». Parabola dal chiaro significato ontologico, che aiuta a comprendere la difficoltà che in filosofia sempre si incontra nel parlare e nel capire l’essere, che è appunto come l’acqua per i pesci. Ci stiamo dentro senza sapere che è l’essere.
La mente di Wallace, esperto di matematica, filosofia e droghe, dovette essere un caleidoscopio di concetti, storie, ipotesi, angosce, slanci, timori, ironia, fobie, un overload, un sovraccarico che lo spettacolo riesce a comunicare attraverso un insieme di trovate con le quali sembra che il pubblico stesso stabilisca che direzione dare alle scene, quando ascoltare e quando silenziare Wallace, il cui discorso si dipana nel racconto di una giornata di settembre, la giornata che lo porterà al suicidio.
Mentre lo scrittore racconta si aprono squarci nei quali appaiono tennisti, antichi guerrieri, persone che lanciano molotov e Banksy che getta mazzi di fiori, attori che nuotano in mezzo al pubblico, giocatori di football americano, ibridi uomo-pesce e altro ancora.
Un’operazione che funziona perché gli attori sono molto bravi a sincronizzare al secondo i loro movimenti, i silenzi, l’apparire, l’urlare. L’ultima scena racconta il viaggio notturno in automobile dei cinque interpreti alla fine dello spettacolo, i loro pensieri non detti, i pensieri invece espressi, i gesti, gli insulti, l’affetto, i corpi nell’abitacolo. Sino all’incidente finale che li fa precipitare dentro l’acqua, dove muoiono.

Vai alla barra degli strumenti