Skip to content


Mussolini, lo Spettacolo

Piccolo Teatro Strehler – Milano
M Il figlio del secolo
regia di Massimo Popolizio
tratto dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
video Riccardo Frati
suono Alessandro Saviozzi
movimenti Antonio Bertusi
con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Heatfield Di Renzi, Raffaele Esposito, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà
in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina
Sino al 26 febbraio 2022

Il fantasma di Benito Amilcare Andrea Mussolini (1883-1945) continua ad aleggiare sul contemporaneo. Perché? Rispondere significa cercare di comprendere il presente nel suo battito profondo, nelle sue paure, nel bisogno di Autorità. È una delle prime affermazioni dello spettacolo: «Guardali: per un uomo avere un Capo è tutto». In 31 quadri tratti dal romanzo di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo, Massimo Popolizio intreccia il teatro didascalico-didattico di Brecht e l’imponente visionarietà di Luca Ronconi per costruire una vicenda teatrale nella quale «la chiave di tutto sta nel montaggio» (Programma di sala, p. 10).
Un montaggio che racconta le vicende del fascismo e del suo capo dal 1919 al 1925, a partire dal programma ancora in gran parte socialista di San Sepolcro fino alla seduta del Parlamento del 3 gennaio 1925 durante la quale, assumendosi la responsabilità dell’assassinio di Giacomo Matteotti, Mussolini disse «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Quando un capo di governo arriva a pronunciare parole come queste, è evidentemente sicuro che nulla gli accadrà, come infatti fu, e che anzi da quel momento potrà disporre del potere in piena autonomia, come protagonista, come Attore supremo.
Camillo Berneri, un anarchico che conobbe Mussolini all’epoca in cui questi era socialista, affermò che costui non era fondamentalmente né vile né coraggioso ma che «era capace di coraggio di fronte al pericolo soltanto quando aveva un pubblico cui mostrarsi audace» (Antonio Scurati, p. 17).  Mussolini lo Spettacolo, dunque. 

La tonalità con la quale viene narrato il piano inclinato che portò il fascismo dal completo fallimento elettorale del 1919 alla presa del potere nel 1922 – possibile solo con la piena complicità dei Savoia, della magistratura, dell’esercito, degli industriali- è «una chiave grottesca per uno spettacolo che non è mai ideologico, ma sempre teatrale» (p. 11). Questa affermazione di Popolizio è fondamentale anche perché parziale. La sua messa in scena è certamente grottesca/parodistica; di più – come aggiunge Pavolini – è «una sorta di cabaret espressionista» (p. 18) nel quale la complessità della storia, la tragedia della violenza, la ferrea casualità degli eventi sembrano smarrirsi in una trama puramente spettacolare.
Il regista rivendica l’affrancamento dalla figura di Mussolini, che viene incarnato da un attore non giovane e con la barba bianca (Tommaso Ragno) e, nei momenti più istrionici, dallo stesso Popolizio, i quali interpretano il loro personaggio facendolo parlare sempre in terza persona. Ma Mussolini non è un personaggio qualsiasi. Il suo corpo, la sua fisicità non costituiscono un elemento sostituibile. Mussolini ha bisogno di un corpo, Mussolini è il suo corpo. Dal corpo del capo – cangiante, ridicolo, solenne, dinamico, ammiccante, inquietante – si sprigiona l’aura del potere fascista. E invece Ragno e Popolizio disegnano «un organismo attoriale dove nessuno somiglia nelle fattezze al personaggio storico, ma prova ad impersonarne il destino» (Pavolini, pp. 18-19). Invece che offrire universalità alla messa in scena, questa soluzione ostacola l’empatia che sempre il teatro deve far nascere con il suo oggetto, in modo – come ci ha insegnato Aristotele – da ottenere la catarsi dei sentimenti anche distruttivi che albergano nei suoi fruitori.

È il corpo del duce, dalla bombetta del 1919 all’appeso/capovolto di piazzale Loreto del 1945, a costituire il magnete per le masse. Perché, come ricorda lo storico Marcello Flores, «Mussolini comprende che la società di massa, in Italia, è nata con la guerra, con i contadini-soldati nelle trincee che adesso, reduci, chiedono riconoscimento, integrazione, ricompensa» (p. 21).
Il fascismo è nato dai corpi slanciati e massacrati delle trincee, il fascismo è nato dal Trionfo della Morte del 1914-1918. Ancora Pavolini giustamente scrive che il duce vuole «essere applaudito anche se sta in piedi su una montagna di morti» (p. 19). Il potente infatti è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili. Il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine – impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini – è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981, p. 366). Il desiderio di dominare come signore incontrastato su un mondo ridotto al silenzio – rimanendo l’unico ad avere parola e vita – è inseparabile dal timore di poter essere a propria volta ridotti a nulla dalla rivolta di coloro che subivano. Ciò crea la necessità di eliminare il pericolo moltiplicando i cadaveri (in senso letterale ma più spesso traslato). È questa per Canetti la spirale del tutto paranoica del potere.
Canetti disvela la vera e propria natura patologica dell’autorità, nella quale pulsa una volontà di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (Massa e potere, p. 87). Volontà che in alcuni momenti diventa una cosa sola con il comando. Le epidemie costituiscono uno di questi momenti. Forse l’Ur-Fascismo, il ‘fascismo eterno’, esiste davvero. Sua espressione contemporanea sono il confino (lockdown), l’obbligo vaccinale, i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) del tutto arbitrari, la violenza delle polizie contro cittadini inermi, la distruzione delle attività economiche, la devastazione delle comunità, la paura. Le ondate di panico collettivo sono sempre molto pericolose e quella legata alla Sars2 è particolarmente insidiosa anche per la sua dimensione planetaria, globale, dalle conseguenze ambientali assai gravi e intrisa di un asfissiante conformismo.
Canetti ci avverte che l’autorità è sempre potenzialmente paranoica e quando i suoi ordini riguardano la ‘salute’ diventa folle e contraddittoria. Contro tutto questo, il pensiero e la pratica libertari costituiscono una preziosa alternativa, un necessario vaccino. L’epidemia conferma infatti quanto con metodi diversi Elias Canetti e Philip Zimbardo hanno ben mostrato: è sufficiente far indossare una divisa a un essere umano (o dargli in mano un dispositivo di controllo del cosiddetto Green Pass) e le probabilità che costui si faccia prendere dal delirio di onnipotenza e dal sadismo (sempre strisciante nel corpo sociale) diventano molto alte. I decisori politici – sia centrali sia periferici – hanno creato una situazione nella quale tale patologia è dilagata.

L’immagine conclusiva di M. Il figlio del secolo appare quando lo spettacolo è finito e gli attori ricevono gli applausi. La foto in bianco e nero raffigura alcuni ragazzi che indossano delle maschere chirurgiche. Non si comprende se l’immagine si riferisca al presente, al Ventennio fascista, ad altre epoche ma costituisce una raffigurazione inquietante dell’oggi nel quale il fantasma di Benito Amilcare Andrea Mussolini continua ad aleggiare in altri nomi, con altre movenze, in corpi diversi ma altrettanto forieri di morte.

Mammona

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Lehman Trilogy
di Stefano Massini
Regia di Luca Ronconi
Con: Massimo De Francovich (Henry Lehman), Fabrizio Gifuni (Emanuel Lehman), Massimo Popolizio (Mayer Lehman), Paolo Pierobon (Philip Lehman), Roberto Zibetti (Herbert Lehman), Fausto Cabra (Robert Lehman), Martin llunga Chishimba (Testatonda Deggoo), Fabrizio Falco (Salomon Paprinskij), Raffaele Esposito (Pete Peterson), Denis Fasolo (Lewis Glucksman), Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez
Scene di Marco Rossi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 15 marzo 2015

Henry, Emanuel e Mayer Lehman provenivano da Rimpar, un paesino della Baviera. Nel 1850 fondano a Montgomery (Alabama) la loro società. Da commercianti di tessuti che erano si sono inventati un nuovo mestiere, quello di mediatori. Comprano il cotone dalle piantagioni e lo rivendono agli industriali che lo trasformano in tessuti. Dopo la Guerra di Secessione si trasformano in banchieri, oltre che in commercianti di caffè. Finanziano le ferrovie attraverso le obbligazioni, con le quali diventano ricchi, molto ricchi. Poi il petrolio, l’impegno in politica di uno dei loro figli come governatore di New York e senatore. Sopravvivono al crollo del 1929. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale estendono i loro affari in tutti i continenti. Finanziano l’industria dello spettacolo, la televisione, i prodotti di consumo. Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento la Lehman Brothers giunge al culmine del suo Beruf, della vocazione-professione a «comprare soldi per vendere soldi, per prestare soldi, per scambiare soldi», come afferma Philip Lehman già alla fine dell’Ottocento. Il core business della Lehman Brothers diventa quindi il trading, la pura speculazione sui prodotti finanziari più rischiosi, sui titoli spazzatura, sui mutui subprime, sui derivati, sulle truffe più legali che esistano. Sino al crollo finale. Il 15 settembre del 2008 la Banca dei fratelli Lehman cessa di esistere.
Centosessanta anni di storia del capitalismo ebraico-statunitense narrati in modo calmo, lucido, onirico, interiore e oggettivo dalle voci dei Lehman, dalle loro azioni, dai loro entusiasmi, dalla loro abilità, dalla loro spregiudicatezza, dai loro sogni e incubi, dai loro matrimoni, dalle loro mogli, dai loro figli, dalle loro morti. All’inizio veniva rispettato lo Shivà, i sette giorni di lutto alla morte di un membro della famiglia, poi gli affari non potranno più aspettare, la Borsa non chiude mai.

La componente religiosa emerge in tutta la sua forza da questo testo e dalla sua messinscena. Una componente identitaria, dove la struttura fondamentale è sempre il danaro. Produzione di danaro per mezzo di danaro, Baruch Aschem, benedetto il Signore. Una produzione infinita che causa una rovina determinata non «da fenomeni di corruzione o di malaffare, quanto invece da un insieme, verrebbe da dire, di patologie sistemiche» (Stefano Massini, Programma di sala, p. 14). Sistemica perché a un certo punto della storia europea prima e mondiale poi, il danaro non è stato più cercato per ottenere qualcosa ma è stato cercato per se stesso. Una differenza fondamentale rispetto al millenario desiderio di essere ricchi e di vivere più agiatamente. Una patologia che non è rimasta limitata a cerchie ristrette di banchieri, usurai, avari, paperon de’ paperoni nuotanti nell’oro, ma è diventata la frenesia di milioni di persone che affidano i loro risparmi e le loro speranze a una finanza molto più rischiosa del gratta e vinci o del gioco delle tre carte negli angoli più nascosti delle città perdute. Massini ricorda che il vicepresidente di Lehman «al momento del crollo non ebbe problemi a dichiarare che nessuno di loro aveva idea di quanti e quali fossero i debiti della banca» (p. 19).
Ma davvero tali patologie non hanno nulla di corrotto o di malaffare? «Le agenzie di rating  nel 2007, alla vigilia di una nuova crisi, promuovevano ancora con ottimi voti alcune banche virtualmente fallite» (Sergio Romano, p. 25). Solo incompetenza? Non lo credo possibile. «Richard Fuld, l’amministratore della banca, aveva da tempo presentato dei falsi bilanci e negli ultimi dieci anni aveva versato 300 mila dollari a deputati e senatori del congresso americano per corromperli, è stato messo sotto inchiesta da altri membri del congresso stesso» (Wikipedia). Complicità, dunque, e conflitti di interesse: «Il valore teorico di tutte le categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’anni di venti volte ed è oggi calcolato in 600 trilioni di dollari, vale a dire 10 volte il prodotto interno lordo mondiale» (S. Romano, pp. 25-26).

I Lehman Brothers attinsero alla volontà di ricchezza di milioni di persone e ne fecero il fondamento del loro desiderio di non morire, di diventare immortali, come dichiara Robert Lehman. Il modo in cui Massini, Ronconi e i magnifici attori che interpretano Lehman Trilogy mettono in scena tutto questo è coinvolgente sino all’immedesimazione e al divertimento. Il ritmo variabile della scrittura e del testo raggiunge un vertice e un vortice durante una delle scene finali, quando Robert Lehman, dopo aver creato una specifica Divisione Trading nella Banca assumendo a questo scopo i più spregiudicati finanzieri, comincia a ballare insieme a due di loro il twist. In quel tremare e godere di tutto il corpo dei tre attori sembra di toccare e sentire la follia più fonda, la ὕβρις.
Cinque ore di teatro, di affabulazione, di passioni, di epica vissuta su un palcoscenico assai semplice, nel quale ogni oggetto, ogni insegna, ogni sedia, ogni movimento dice una cosa sola: Mammona. «Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc. 16,13). Ma c’è chi ci riesce benissimo.

Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

Sesso / Denaro / Morte

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume
di Michel Garneau, da Fernando de Rojas
Traduzione di Davide Verga
Con: Giovanni Crippa, Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Fausto Russo Alesi, Maria Paiato, Licia Lanera, Fabrizio Falco, Lucia Marinsalta, Bruna Rossi, Lucia Lavia, Gabriele Falsetta, Riccardo Bini, Pierluigi Corallo, Angelo De Maco
Scene: Marco Rossi
Costumi: Gianluca Sbicca
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 1 marzo 2014

celestinaTra il 1484 e il 1492 Fernando de Rojas compose il Libro de Calisto y Melibea y de la puta vieja Celestina, un lungo romanzo che il canadese Michel Garneau ha sfrondato e ha tradotto in francese dandogli come titolo Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume. Davide Verga ha tradotto in italiano la tragedia/commedia di Garneau. Luca Ronconi l’ha messa in scena.
Testi dentro altri testi, linguaggi dentro altri linguaggi. Da questo libro nacquero -ancor prima del Quijote– il romanzo e il teatro moderni. I tanti riferimenti alla classicità -Plauto in particolare-; alla morale del Medioevo -il peccato e la sua punizione-; al disincanto dal quale attinse anche Machiavelli; all’amore e al sesso; tutto questo si mescola, si altera, si trasforma in un trionfo del linguaggio ora raffinato e retorico ora immediato e plebeo. Allora come ora il denaro si mescola all’amore, dando prezzo a ogni desiderio. «I poveri non sono quelli che hanno poco ma quelli che desiderano molto», afferma uno dei personaggi. E un altro, riferendosi all’amore, esclama: «Che fatica, che seccatura, che piaga!». Da parte sua la puta vieja, la vecchia prostituta e mezzana Celestina pronta a servire gli ardori di ogni maschio o femmina e del diavolo stesso se necessario, dichiara che «può tutto il denaro, non c’è luogo così elevato che un asino carico d’oro non riesca a salirvi».
Ora Celestina è chiamata da Sempronio a guarire il suo padrone Calisto da un mortale fuoco che lo spinge verso Melibea, intravista per caso nuda in un giardino e da allora inchiodata nella mente e nei genitali di colui. La ragazza lo respinge inorridita, non ne vuol sapere. Ma le arti magiche e linguistiche di Celestina la gettano tra le braccia di Calisto. Dopo averla avuta, il giovane chiede a se stesso sconsolato «Sono felice?» e risponde «No». Torna certo più volte dalla sua dea, angelo e pollastra (così la chiama nell’ordine cronologico del dire) e addirittura muore per lei ma la felicità che cercava e della quale era sicuro, quella non l’ha avuta no.
Nella ricca e geometrica messa in scena di Ronconi gli innumerevoli incontri dei quali la commedia/tragedia è fatta -e che spingevano Gadda a chiedersi come sarebbe stato mai possibile «ridurre nella unità scenica le concomitanze multiple dell’azione, e le dislocazioni divergenti? la torre, le scale, il padre in giardino, lei in camera, il volo dalla finestra?» (Programma di sala, p. 18)-, gli ambienti così diversi in cui la vicenda si svolge, le strade, le scale, le siepi, i muri e tutto il resto, sono restituiti con porte che si innalzano d’improvviso sulla scena, botole da cui emergono letti e personaggi, distanze dalle quali precipitano i morti.
Le passioni, dunque, degli umani. Passioni per i soldi, passioni per la fessura, passioni per il membro verticale. Questo infinito sciabordare e la risacca che ne segue, la quale tutto con sé trascina sino alla successiva ondata di maroso, è ulteriore ragione di compatimento per l’umano. Mentre altri animali si piegano alla necessità della copula e della riproduzione della specie -e lì sembra finire- la nostra ha bisogno di condire con l’olio del sentimento la meccanica dell’accoppiamento per farla meglio scorrere. E scorre scorre infatti la morte dentro il nucleo stesso della vita appassionata.

 

Vai alla barra degli strumenti