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Tenebre

Timbuktu
di Abderrahmane Sissako
Francia-Mauritania, 2014
Con: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima)
Trailer del film

Un villaggio nel deserto del Mali. Pastori, nomadi, piccoli mercanti che scambiano ciò che possiedono, pescatori. Il Sole e il silenzio. Il canto e gli affetti. Sino a che non arrivano i militanti del Jihād , della Guerra Santa, a imporre i loro divieti, i loro matrimoni forzati, le loro frustate, i loro tribunali, la loro inquisizione. È proibito fare musica. È proibito alle donne farsi vedere senza velo e senza guanti, anche quando devono pulire il pesce al mercato. È proibito fumare. È proibito stare sulla porta di casa. È proibito giocare al calcio. Ma i ragazzini si inventano una partita di pallone senza il pallone. Nelle case qualcuno continua a suonare. Una donna e sua madre rifiutano il matrimonio con uno dei militanti. Vengono tutti puniti con decine di frustate sulla pubblica piazza. Seguendo la legge mosaico-maomettana -«Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte», (Levitico, cap. 20, versetto 10)- un uomo e una donna vengono seppelliti sino alla testa nella sabbia e colpiti dalle pietre dei militanti. Anche Kidane subisce la Shariʿah, la Santa Legge. Pastore tranquillo, innamorato della moglie, protettivo nei confronti dell’unica figlia dodicenne, a Kidane viene uccisa una mucca. Nel litigio che segue parte un colpo di pistola, il suo avversario muore, il tribunale lo condanna alla pena capitale. A Kidane non fa paura morire ma lasciare senza protezione la figlia e la moglie. Nel mezzo di questo buio, la luce di una donna folle che parla ai galli; la gentilezza di un traduttore; la calma dell’imam del villaggio; la ribellione di un motociclista.
Timbuktu è opera elegante nella forma, bellissima nei paesaggi, profonda negli sguardi, silenziosa nelle notti. Un film che con lievità sa narrare l’orrore. Sa narrare la tenebra che pensavamo di aver superato e che invece ritorna nel culto per i libri maledetti -Bibbia, Corano- e per le loro atrocità. Timbuktu comincia con degli uomini che uccidono una gazzella e sparano contro gli «idoli», contro delle belle sculture animistiche. Quei libri antropocentrici disprezzano la natura e cancellano le culture che non si sottomettono all’Uno.

Shariʿah / شريعة

La struttura che si fa chiamare Isis o Daesh ha pubblicato un opuscolo in italiano. 64 pagine di citazioni dal Corano, di immagini della vita nel califfato, di affermazioni nette, fideistiche, inneggianti all’unico Dio e sicure della vittoria della Shariʿah, la Legge Islamica. Al confronto, le pubblicazioni dei Testimoni di Geova costituiscono un esempio di libero pensiero.
Qualunque realtà, struttura, finanziamento, stato, servizio segreto ci sia dietro la sigla Isis/Daesh e i suoi militanti, ciò che si legge a pagina 13 di questo opuscolo è affermato nel Corano -Sura II, versetto 193- e nella sua versione completa suona: «Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano».
Nel nome di Dio si massacrano coloro che non lo adorano, si distruggono le testimonianze di millenarie civiltà politeistiche, si esaltano la guerra e la violenza come strumento di salvezza eterna -جهاد, Jihād  appunto-, si disprezza ogni libertà, prima di tutto quella della parola, giudicata forma della blasfemia.
Ecco: questo è il monoteismo, questo è il nemico assoluto della differenza, questo è l’abominio.

 

Isis_monoteismo

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