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Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

Ravenna

Fu Ottaviano Augusto (I sec. a.e.v.) a comprendere quale vantaggio strategico sarebbe venuto a Roma dal controllo e dall’espansione di un borgo vicino al mare ma separato da una laguna a sua difesa. Da allora Ravenna divenne uno dei luoghi militari più importanti dell’Impero. Importanza che crebbe mano a mano che il baricentro della Roma imperiale si spostava a Oriente e quando la capitale della parte occidentale, Milano, non fu più difendibile, facendo appunto di Ravenna la nuova capitale (402).
A Ravenna fu deposto nel 476 da Odoacre l’ultimo imperatore romano. Nell’epoca romano-barbarica e bizantina, e come città bizantina, Ravenna raggiunse lo splendore del quale vive ancora. I suoi palazzi imperiali e le chiese romaniche sono infatti immersi nel tessuto urbano, come sua parte costitutiva e senza la quale sarebbe un luogo anonimo. Ovunque dominano il segno e la tecnica del mosaico, fragile anch’esso, certo, rispetto alla potenza del tempo ma capace di porre un attrito alla dissoluzione con la forza della pietra. Tra i sovrani romano-barbarici che ne consolidarono il ruolo di capitale, il nome di Teodorico, re ariano degli Ostrogoti (454-526), abita ancora nel Mausoleo che si trova poco al di fuori delle mura.

Una tomba di porfido, pietra riservata ai re, ne conserva il nome, solo il nome. Accanto al Mausoleo la rocca di Brancaleone eretta dai veneziani a difesa della città. Inoltrandosi da qui tra le strade di Ravenna, la prima chiesa che si incontra è una delle più eleganti, sobrie, raccolte e insieme trionfali: San Giovanni Evangelista. E da lì si dispiega poi la potenza dell’architettura bizantina che ha in San Vitale il suo trionfo. Un vortice di spire, di tessere, di mosaici, di santi e di sovrani, di simboli biblici e di luce che piove. Davvero una meraviglia ottagonale (immagine di apertura).

Sulla stessa tonalità della pietra romanica – dal colore così caldo, dalla tonalità così familiare ai nostri occhi abituati sin dalla nascita ad abitare architetture – vibrano le altre grandi chiese della città, tra le quali emergono l’armonia e il vuoto di Sant’Apollinare Nuovo.
Tra i luoghi non direttamente cristiani emergono la tomba di Dante, al quale i poteri fiorentini non concessero di morire nel luogo in cui era nato, e il recente, ricco Museo Classis che racconta la storia di Ravenna dalla fondazione al presente. Il Museo occupa gli spazi di uno zuccherificio chiuso nel 1982 e conferma tutte le potenzialità dell’archeologia industriale nel dare respiro all’antico.

Ho visitato questo museo una domenica mattina mentre la vicina Basilica di Sant’Apollinare in classe era chiusa (incredibilmente) e avrebbe aperto soltanto di pomeriggio. A poca distanza l’antico Porto di Classe è chiuso anch’esso alle visite in autunno. Chiusure sciagurate, che mostrano quanto Ravenna e l’Italia debbano ancora fare per rendere grazie alla propria storia, a un passato che è di fatto unico al mondo per la pervasività ovunque della civiltà romana, della sua determinazione, della sua misura, della sua ironia.

A Ravenna si comprende in modo persino abbagliante che cosa fecero i cristiani di questa radice e albero pagani. Che fossero bizantini, ariani o fedeli alla dottrina del vescovo di Roma, i cristiani si comportarono come strutture parassite, che in sé avevano ben poco da offrire, con le loro bizzarre storie di profeti crocifissi, ma che seppero trasformare queste bizzarrie in arte e in dottrina assorbendo per intero e in ogni punto della loro sostanza artistica e dottrinale il mondo romano e la filosofia dei Greci.
Come a Siracusa il Duomo è il tempio di Atena, come innumerevoli chiese sudamericane sono in realtà luoghi di venerazione degli antichi dèi precolombiani, così le pietre e le idee sulle quali sono costruiti gli edifici di Ravenna sono profondamente e per intero pagani. La cripta di una di queste chiese, San Francesco, è invasa dalle acque e vi nuotano proprio sotto l’altare dei pesci. Che l’elemento di Talete e i suoi animali stiano alla base dell’altare del dio cristiano è una visione veramente unica. Durante la visita a questa chiesa risuonavano le letture della messa cattolica. La prima lettura, tratta da Esodo, 17, 8-13 si chiude con queste parole: « ‘Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada’. Parola di Dio».
Questa parola di dio è di per sé senza misura, fanatica, ed è stata resa meno violenta soltanto dalla σοφία e dalla φρόνησις dei Greci, sulle quali si fonda anche la bellezza di Ravenna.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo

Gore Vidal
Giuliano
(Julian, 1959-1964)
Traduzione di Chiara Vatteroni
Postfazione di Domenico De Masi
Fazi Editore, 2017
Pagine 585

I libri sconfiggono anche la morte, pur non potendo sconfiggere il tempo: «Facciamo dunque rivivere Giuliano e per sempre» (p. 25). Ed è così che Libanio, maestro di Giuliano, e Prisco, che aveva conservato e preservato il diario dell’imperatore, leggono, commentano, discutono i testi del loro amico e allievo, sperando di poter pubblicare una sua biografia, che però l’imperatore Teodosio proibirà.
Libanio e Prisco non soltanto sono reali, essi appaiono anche del tutto verosimili, come ogni altro elemento, personaggio, evento, scena, luogo di questo romanzo. Nessuno dei due formula acritici elogi di Giuliano. Prisco è anzi spesso severo verso l’ingenuità dell’imperatore, la sua mania per le ecatombi in onore degli dèi, l’affidarsi a ciarlatani e indovini, e arriva ad affermare che «Giuliano voleva credere che la vita di un uomo ha un significato molto più profondo di quello che realmente ha. Il suo male era lo stesso della nostra epoca. A tal punto non accettiamo di estinguerci, che continueremmo a ingannarci l’un l’altro in eterno pur di negare l’amara, segreta consapevolezza  che il nostro destino è non essere» (103).
E tuttavia nessuno in questo libro può stare alla pari di un uomo che sembrava non voler fare altro che leggere – «Finché avevo la possibilità di leggere, non ero del tutto infelice» (61)–, imparare, studiare, pensare. E che però fu anche e sempre un soldato, uno dei massimi strateghi del mondo antico, mai sconfitto in nessuna battaglia, vincitore ovunque, dalle Gallie alla Persia. Un uomo che, come tutti gli antichi che non fossero ebrei, vedeva nella molteplicità, nella differenza e dunque nel politeismo la struttura stessa del mondo e che anche per questo nel 362 restaura la libertà di culto che i suoi predecessori cristiani avevano cancellato: «Il 4 febbraio 362 proclamai la libertà di culto in tutto il mondo. Ognuno poteva adorare la divinità che preferiva, nel modo che preferiva» (376). Un uomo, soprattutto, votato alla luce, all’armonia del tempo, alla sua infinita spirale. Arrivando ad Atene, Giuliano dice a se stesso «ero nel presente, appartenevo al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo mi spalancava le sue braccia e in quel sereno amplesso vedevo il tutto nel suo insieme: un cerchio senza inizio né fine» (159).
Dopo che «quell’avventuriero di Costantino ci ha venduto ai vescovi» (27), quest’uomo giunto, nonostante molti rischi e per i suoi meriti, alla carica imperiale cerca nel poco tempo che intuisce essergli dato di restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo. Per quanto probabilmente impossibile ormai da realizzare, tale progetto fu troncato durante uno scontro militare da un assassinio non da parte nemica ma perpetrato da alcuni dei suoi stessi soldati, devoti al nuovo dio. L’esecutore così descrive la propria azione: «Pregai Cristo  perché mi desse la forza. Poi gli immersi la lancia nel fianco» (566).

Davvero, come spesso si ripete in questo romanzo, gli umani sono affascinati dalla distruzione, dalla guerra, dalla violenza. Forse perché intuiscono di non meritare d’esserci, di costituire un trascurabile errore della materia. Tra gli appartenenti a congreghe religiose, i monoteisti sono particolarmente ossessionati dalla distruzione. Tra questi i cristiani, la cui ferocia emerge in modo continuo e inesorabile dalle pagine di Gore Vidal.
Il devoto cristiano Costanzo, zio di Giuliano, gli uccide il padre per assicurarsi il trono imperiale, e «quindi se poteva essere allo stesso tempo un buon cristiano e un assassino, allora nella sua religione c’era qualcosa di sbagliato» (44). I vescovi e le sette nazarene sono continuamente in conflitto gli uni contro gli altri sino a mostrare tutta la follia della propria arroganza. Rivolgendosi a essi Giuliano ha buon gioco a inchiodarli ai loro misfatti: 

Ecco i vostri crimini più recenti. Omicidi e confische…oh, come vi piacciono le ricchezze di questo mondo! Eppure la vostra religione afferma che non dovreste reagire alle offese, né ricorrere al tribunale, e neppure possedere ricchezze, e tanto meno rubarle! […] Vi è stato insegnato a disprezzare il denaro, e invece lo accumulate. Vi hanno detto che non dovreste vendicarvi, quando subite un torto, vero o immaginario che sia: che è sbagliato rispondere al male con il male. E invece vi accanite gli uni contro gli altri, in bande scatenate, e torturate e uccidete quelli che non la pensano come voi. […] Se non riuscite a vivere secondo quei precetti che siete disposti a difendere con le armi e con il veleno, che cosa siete, se non degli ipocriti? (388).

La loro intolleranza non ha pari, come Prisco argomenta: «Nessun’altra religione ha mai creduto necessario distruggere gli altri solo perché professano un’altra fede. […] Nessun flagello ha mai colpito il mondo con la stessa violenza e con le stesse proporzioni del cristianesimo» (173).
La forza dei cristiani è l’energia dei parassiti. Senza la logica rubata agli elleni, senza la grandezza dei templi greci, senza la profondità del pensiero antico  – tutti elementi da loro utilizzati – questa setta non avrebbe avuto possibilità di crescere, imporsi, diventare il senso comune. Massimo, sacerdote pagano molto e imprudentemente apprezzato da Giuliano, ha comunque ragione a osservare come «tutto quel che avevamo di sacro, ci è stato rubato dai galilei. Il compito principale dei loro innumerevoli concili è quello di dare un senso a tutto ciò che hanno preso in prestito da una parte e dall’altra» (112).

Non si tratta soltanto dei seguaci, è il loro maestro a essere indegno di qualunque argomentato apprezzamento. Gesù fu uno dei tanti rabbini riformatori finiti male; uno dei tanti esponenti di una religione – l’ebraismo –  locale e tribale per sua stessa definizione e pretesa; un condannato a morte assurdamente divinizzato; la più «pericolosa invenzione» della fantasia dei fanatici, come lo definisce Libanio (574), che nel Cristo Pantocratore della basilica di Costantinopoli intravede «il viso scuro e crudele di un boia» (573).
Come conferma uno dei massimi studiosi di storia del cristianesimo «quel che noi chiamiamo ‘cristianesimo’ fu una forma di giudaismo caratterizzata da una fortissima spinta proselitistica» (Giancarlo Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci Editore 2020, p. 11). Rinaldi continua mostrando la «piena ‘ebraicità’ di Gesù e il carattere pienamente giudaico della predicazione sua e dei suoi seguaci» (25), cosa che era del tutto evidente ai polemisti sia pagani sia cristiani dei primi secoli dell’e.v. e invece ancora fatica ad affermarsi nel senso comune, dopo essere stata accolta assai lentamente dagli studiosi di storia del cristianesimo. Emblematico di questa consapevolezza è l’interrogativo di Giuliano il quale si chiedeva come si potesse «proclamare il Dio giudaico Signore dell’universo quando egli, al contrario, per secoli aveva trascurato l’umanità intera dedicandosi a un solo popolo relegato in un cantuccio della terra?» (Contra Galilaeos, fr. 20).

Da simili presupposti non potevano che sorgere tenebre culturali, politiche e antropologiche. Lo ierofante di Grecia, ad Atene, rivolge a Giuliano queste parole: «Arriveranno i barbari. I cristiani trionferanno. E sul mondo caleranno le tenebre» (Giuliano, p. 193). Così infatti è accaduto. «Ossessionati dalla morte» (440), i cristiani sono – semplicemente – il male, come Giuliano dice a un vescovo che lo sfida e disprezza: «Non pensare che tutte le generazioni che si sono succedute dalla morte del Nazareno contino più di un istante nell’eternità. Il passato non cessa di esistere solo perché voi vi ostinate a ignorarlo. Quello che tu adori è il male. Hai scelto la divisione, la crudeltà, la superstizione» (391).
Libero dalle superstizioni e dai terrori cristiani, mentre sta per morire Giuliano così medita: «Nell’ora più opportuna, abbandono questa vita, felice di restituirla alla Natura, che me lo chiede, come un uomo d’onore che paga i suoi debiti entro la scadenza» (555).
La fine di Giuliano non è stata soltanto la morte di un uomo, la sconfitta a tradimento di un imperatore. La fine di Giuliano è stata anche il tramonto di Roma, perché dopo di lui «i goti e i galilei erediteranno lo Stato, e come gli avvoltoi e i vermi spolperanno le ossa di ciò che è morto, finché sulla terra non resterà nemmeno l’ombra di un dio» (537). La fine di Giuliano sarà la fine della «speranza nella felicità umana» (574), sarà la fine della luce: «Ora possiamo solo lasciare che venga il buio, e sperare in un nuovo sole e in un altro giorno, nato dal mistero del tempo e dall’amore dell’uomo per la luce» (575).
Con queste parole di Libanio si chiude un romanzo cha aiuta a comprendere le ragioni per le quali ancora oggi l’Europa non può non dirsi pagana.
Da tale comprensione discendono delle coordinate esistenziali differenti, davvero nuove perché radicate in una identità ancora viva. Allo storicismo, alla temporalità lineare e irreversibile che postula un significato intrinseco della storia – intrinseco perché radicato nella volontà dell’unico Dio — va opposta la consapevolezza (anche cosmologica) che non si dà alcun inizio assoluto del tempo e ogni passato è ancora da venire. Il divino non abita nel totalmente Altro, al di là e al di fuori della natura, delle cose, del mondo. Dio si dispiega qui e ora. È quanto con grande chiarezza e dottrina scrisse Salustio, amico e sodale di Giuliano:  «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ αεί»  (Sugli dèi e il mondo, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, 4, 8, 26), queste cose mai avvennero e sempre sono. Sempre.

[Di questo libro ho parlato anche in un saggio Sul politeismo ma qui ho voluto darne un quadro più ampio perché si tratta di uno splendido romanzo che merita di essere gustato nella sua dottrina e nella sua sapienza narrativa] 

Adriano

Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini di appunti
(Mémoires d’Hadrien, suivi de Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien, 1951)
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, 1988
Pagine 330

È uno dei libri che restituiscono alla lettura il suo senso più proprio, il suo significato proustiano, il suo essere prima di ogni altra cosa un molteplice dialogo con se stessi e dunque un confronto pieno con l’esistere. La scrittura splendida e semplice di Marguerite Yourcenar mostra quanto vivo sia il mondo dei Greci, il mondo dei pagani.
Tra il 117 e il 138 dell’e.v. un uomo a tutto interessato, viaggiatore instancabile, soldato abilissimo, lettore e scrittore, amante della bellezza in ogni sua forma, politico accorto e lungimirante, prende il potere e fa della pax romana molto più che un’aspirazione o una formula. Con Adriano l’integrazione dei popoli, la molteplicità religiosa, lo sviluppo economico, la pace alle frontiere, l’incremento urbanistico, culturale, artistico, costituiscono delle realtà tangibili.
Yourcenar ha disegnato di quest’uomo un ritratto compiuto e di grande bellezza. Ha lavorato con acume su moltissime fonti ma non ha scritto un saggio storico. E tuttavia sono pochi gli episodi frutto di sola invenzione. L’autrice afferma di aver voluto «rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno» (p. 285). Ne scaturisce un’opera sintesi, nella quale i temi e i caratteri più propri dell’epoca imperiale al suo apogeo si intrecciano con motivi e pensieri universali, di profonda qualità filosofica.
Adriano vuole comprendere l’esistenza e gli enti; sa di disporre a questo scopo di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi […], l’osservazione degli uomini […] e i libri» (21-22). Questi ultimi sono stati la sua «prima patria» perché è tramite loro che per la prima volta ha «posato uno sguardo consapevole su se stesso» (32). Da allora ha compreso sempre più lo splendore e l’assurdità del vivere. La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni amorose, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (155).
Adriano molto ha sperimentato, da tante cose si è allontanato, senza però mai aver rinunciato a nulla che promettesse una sia pur piccola pienezza. Per lui il potere è stato soltanto un modo di essere libero: «Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà» (41). Il suo sguardo sugli umani è disincantato senza essere arido, è anzi colmo di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (205), fino a disperarsi per la morte dell’amato ed elevare a lui un vero e proprio culto: la religione di Antinoo. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella feconda tolleranza di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (253). Ha amato la Grecia e ha fatto di essa la vera padrona del mondo poiché da lei proviene «tutto quello che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico. Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «d’entrare nella morte a occhi aperti…» (276).
Ma Yourcenar non ha voluto proporre un’immagine ideale e dunque artificiosa di Adriano; lei stessa scrive con arguzia di essersi divertita «a fare e rifare questo ritratto d’un uomo quasi saggio» (286). Adriano non nasconde infatti a se stesso nessuna della proprie viltà, debolezze, limiti, e in questo modo mostra di essere -nonostante tutto– un nostro contemporaneo più che un imperatore del II secolo.
Forse il significato del libro consiste proprio nell’aver coniugato le epoche, nell’aver delineato l’umano nella sua espressione migliore e fatto di Adriano un contemporaneo lasciandolo essere un antico. A quale età appartengono parole come queste: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (184)? Appartengono a quel tempo lontano, al presente, al sempre.

Ponzio Pilato

Il procuratore della Giudea
di Anatole France
(Le procurateur de Judée, 1902)
Traduzione e nota di Leonardo Sciascia
Sellerio, 1988
Pagine 48

France_ProcuratoreElio Lamia e Ponzio Pilato si intrattengono amabilmente durante una cena, ricordando il passato, la vita a Gerusalemme, il difficile governo della Giudea. Il procuratore difende il proprio operato, che era stato sempre rivolto a garantire la giustizia e le leggi, a promuovere anche in Giudea lo sviluppo e la pace che il dominio di Roma apportava alle Province dell’Impero. Ma essi, i Giudei -«questi nemici del genere umano» (p. 17)- «ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni» (26), fanaticamente certi di essere gli unici a conoscere il divino, seppure tra di loro continuamente in confitto sulla interpretazione delle proprie Scritture. Pilato presagisce che questo popolo non sarà mai domato, se non con la distruzione completa della Città santa e con la dispersione. Lamia è d’accordo con lui ma pensa che «in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità» (29), ricorda anche le virtù nascoste di quel popolo e soprattutto la bellezza delle sue donne, la sensualità straripante di «un’ebrea di Gerusalemme», con le «sue danze barbare, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato […] Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco» (30-31). Questa donna fu da lui perduta quando lei si unì a «un giovane taumaturgo di Galilea»; Lamia chiede a Pilato se si rammenta di questo Gesù «crocifisso non ricordo per quale delitto». La risposta del procuratore è meravigliosa: « “Gesù” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo» (31). E su queste parole si chiude il racconto, «che è un apologo -e un’apologia- dello scetticismo più assoluto (e quindi della tolleranza che ne è figlia)» (Leonardo Sciascia, p. 36).
La figura di Pilato è ricostruita con molta verosimiglianza. Un uomo giusto, ligio alla romanità, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia. Invece anche a me la vicenda di quest’uomo sembra singolare, rispettabile e -come afferma Lamia- di grande interesse.
Sua è la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (F.Nietzsche, L’Anticristo, in «Opere», vol. VI tomo 3, Adelphi 1975, p. 229).
Questo bellissimo racconto di France spiega perché Pilato sia davvero degno d’onore.

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