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Komorebi

Perfect Days
di Wim Wenders
Giappone-Germania, 2023
Con: Kôji Yakusho (Hirayama), Arisa Nakano (Nika), Tokio Emoto (Takashi)
Trailer del film

I giorni perfetti della solitudine. I giorni di un uomo che nel gomitolo urbano di Tokyo si alza prima dell’alba, ripone il suo letto in un angolo, annaffia le piantine che conserva con cura, si prepara, compra una lattina di caffè e va a pulire i gabinetti pubblici della città, accompagnando il viaggio in auto con l’ascolto di vecchie cassette audio. Le canzoni sono degli anni Settanta e Ottanta, probabilmente quelle più amate da Wim Wenders. Finito il lavoro, si lava ai bagni pubblici (pulitissimi), a volte fa una passeggiata in bici, la sera va a mangiare qualcosa in due diversi locali, uno più intimo e più familiare.
Regolarmente ritira le foto scattate con una vecchia macchina analogica e consegna nuovi rullini. Hirayama fotografa soprattutto gli alberi, il vento tra gli alberi, i raggi di sole che improvvisamente e serenamente si mostrano tra le foglie. Un fenomeno irripetibile e casuale, per il quale in italiano non esiste una specifica parola e che in giapponese si dice Komorebi, termine composto dai caratteri kanji per albero (), splendore (漏れ) e sole (). Prima di addormentarsi legge alcune pagine di un libro. Così tutti i giorni.
A condividere questa solitudine è un barbone che disegna figure con il proprio corpo; a infrangerla e a  disturbarla è invece un giovane compagno di lavoro chiacchierone e approfittatore. Si aggiunge poi l’arrivo di una nipote in fuga dalla famiglia. Dalla sua presenza e poi dal suo tornare a casa, prelevata dalla madre, veniamo a sapere solo indirettamente che Hirayama appartiene a una ricca famiglia, dalla quale si è allontanato per ragioni a noi sconosciute.
Una sera viene cercato dall’ex marito della signora presso cui cena, con il quale si chiede se due ombre sovrapposte risultino per questo più scure. I due uomini cominciano un gioco con le ombre per verificarlo. Nella scena conclusiva il volto di Hirayama sorride e riflette mentre va ancora una volta al lavoro.
Un proverbio latino recita O beata solitudo, o sola beatitudo. Una beata solitudine come condizione della gioia. E questo nel gioco di oscurità e luce che sono i giorni umani, le ombre, komorebi.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

Death of the Future

Japan. Body_Performer_Live
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Shihoko Iida e Diego Sileo
Sino al 12 febbraio 2023

C’è un manierismo nell’arte contemporanea a volte assai banale ma che in questa antologia di artisti giapponesi esprime anche un senso di inquietudine, di disperazione, di guerra. Come se davvero vivessimo un qualche post della catastrofe, un al di là del senso e del significato.
Chilaru Shiota documenta i propri inizi con Bathroom, un video nel quale la si vede immersa nel sudiciume, trasformata in impasto di materia dentro una lurida vasca da bagno, diventata corpo confuso con grumi di sporco. Invece il recente Corpo vuoto è un’elegante e inquietante installazione che occupa un’intera sala, dentro la quale la realtà si spezza e si moltiplica mediante una resa materica, tridimensionale, della percezione.

(Chilaru Shiota – Corpo vuoto)

Dumb Type è il nome di un collettivo nel quale la scrittura si fa letteralmente luce, diventa opera.
Makoto Aida frantuma con il sarcasmo le figure mediatiche del potere. In un video Osama Bin Laden dichiara di essersi nascosto in Giappone, di gustare il cibo giapponese e soprattutto di apprezzare molto gli alcolici; infatti appare decisamente brillo e dichiara «Paese strano questo, dove un idiota riesce a diventare primo ministro»; un altro video presenta un oratore che somiglia al primo ministro Shinzo Abe che getta via il discorso che ha preparato e comincia a denunciare le malefatte degli Stati Uniti d’America.
Mari Katayama è un’artista priva della parte inferiore delle gambe. Lei si fotografa così com’è, con le protesi o senza, in pose quotidiane o, più spesso, raffinate e sensuali. Si installa in questo modo nello spazio dei sensi, dell’acqua, di una bellezza metamorfica. Sono suoi anche dei resti di conchiglie, come relitti di un naufragio.
L’opera più dirompente ed emblematica della tonalità dell’intera mostra è forse We Mourn the Death of the Future di Meiro Koizumi (immagine di apertura), un coinvolgente e tragico video di un mantra/rosario di seppellimento. Tra le frasi che scorrono mentre l’azione accade, c’è questa: «Non sono ancora nato ma sono già morto».
Attraverso le opere, le idee, le installazioni, le performance di questi e di altri artisti (Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, Yuko Mohri, Saburo Muraoka, Yoko Ono, Lieko Shiga, Kishio Suga, Yui Usui, Ami Yamasaki, Chikako Yamashiro, Fuyuki Yamakawa, Atsuko Tanaka, Kazuo Shiraga) l’Occidente/Oriente che il Giappone è diventato mostra un rigore formale, un inquietante senso della catastrofe, la rinuncia a ogni illusione, un ultimo gesto di consapevolezza e di creazione.

 

Un elegante morire

Living
di Oliver Hermanus
Gran Bretagna, 2022
Con: Bill Nighy (Williams), Aimee Lou Wood (Margaret Harrisen), Tom Burke (Sutherland)
Trailer del film

Tratto dall’omonimo film di Akira Kurosawa (1952), scritto da Kazuo Ishiguro, interpretato da attori veramente british, primo dei quali il protagonista Bill Nighy, Living riesce a trasmettere il pulsare della vita in due strutture che sembrano negarla.
La prima è una burocrazia che gira a vuoto negli uffici del Comune di Londra formalmente inappuntabili ma di fatto pigri, incapaci, incompetenti, i quali respingerebbero all’infinito la semplice richiesta di alcune madri di trasformare un fatiscente cortile in un piccolo parco giochi per bambini. Parco che viene realizzato solo quando il responsabile dell’ufficio dei lavori pubblici, Mr. Williams, prende nelle mani e nel cuore la pratica e testardamente agisce, implora, ordina che il parco venga realizzato. La cosa appare ancor più stravagante in quanto Mr. Williams è una persona gelida, solitaria, riservata e priva di emozioni. Tanto che una giovane impiegata lo ha definito Mr. Zombi.
Il carattere di questo signore è il secondo elemento che sembra appunto negare ogni vita. Ma tutto muta quando Mr. Williams riceve una diagnosi infausta. È a quel punto, un punto temporale, che il bisogno animale di vita riemerge ed esplode – per quanto possa farlo nella Londra perbenista degli anni Cinquanta – attraverso decisioni, pratiche, relazioni, sorrisi, lacrime. La giovane collega precaria che lo ha definito zombi diventa la sua amica, confidente, complice.
Chi sta intorno a Mr. Williams, che a nessun altro confida il proprio male, non capisce che cosa stia accadendo. Ma è bastata la tenacia che conduce alla realizzazione del parco giochi per fare di quest’uomo e della sua memoria un movimento ancora vivo nell’altalena che oscilla sotto la neve e sulla quale il film si chiude.
Un racconto esistenziale narrato al modo dei vecchi film: raffinato, cromaticamente irrealistico, capace di andare senza pregiudizi e senza mode (uno dei rari film contemporanei in cui non appaiono neri, militanti gender e omosessuali) al cuore della vita, della sua precarietà assoluta, del suo esserci come attesa e come memoria, come futuro che nel presente si fa passato.

Sangue

Confessions
(Kokuhaku)
di Tetsuya Nakashima
Con: Takako Matsu (Yuko Moriguchi), Yukito Nishii (Shuya Watanabe), Kaoru Fujiwara (Naoki Shimomura), Yoshino Kimura (la madre di Naoki)
Giappone, 2010
Trailer del film

Non è facile riassumere la trama di questo film ma non è neppure necessario. Detto in poche parole: un’insegnante di scuola media comprende che la propria bambina di quattro anni non è morta per un incidente cadendo in piscina ma è stata uccisa da due dei suoi alunni. Come una macchina insieme logica e biologica, organizza una vendetta che non lascia scampo poiché fa sì che siano gli stessi ragazzi/assassini ad attuarla su di sé.
Interessante, certo. Ma la forza dell’opera sta soprattutto nella forma capace di restituire la densità degli eventi lungo temporalità diverse, fondendo musica e linguaggio umano, capovolgendo e moltiplicando il significato di scene all’inizio univoche, utilizzando dei semplici specchi posti all’angolo delle strade come elemento visivo e distorto del racconto, trasformando il disordine iniziale della classe in un geometrico labirinto del castigo.
Strutture narrative visionarie delle quali l’occhio gode senza pause e che stimolano una riflessione attenta sull’umano al di là della sociologia dell’educazione, del chiaro fallimento pedagogico che intrama persino una società abituata da secoli al rispetto come quella nipponica. La convergenza di normative incapaci di cogliere l’efferatezza della specie, di principi didattici ignari della complessità dell’apprendere, di tecnologie al servizio del narcisismo idiota dei singoli e dei gruppi, tutto questo scatena una violenza tanto estrema quanto quotidiana. Il sangue è qui non una sostanza biologica ma un puro simbolo dell’enigma molteplice che è l’umano, alla maniera di Shining pur nella distanza siderale delle trame.
E su tutto la Madre. Quella la cui figlia è stata assassinata ma anche e specialmente le altre due. Una la cui assenza è tra le ragioni del comportamento malvagio del ragazzo, l’altra la cui presenza è tra le ragioni del comportamento malvagio del ragazzo.
È con profondo compiacimento che si percepisce l’inevitabilità del convergere di queste tre madri dentro la morte. Hanno dato la vita. Per questo vengono giustamente punite.

Les Misérables

Un affare di famiglia
(Shoplifters)
di Kore’eda Hirokazu
Giappone, 2018
Con: Lily Franky (Osamu Shibata), Kirin Kiki (Hatsue Shibata), Sakura Andô (Nobuyo Shibata), Mayu Matsuoka (Aki Shibata), Jyo Kairi (Shota Shibata), Miyu Sasaki (Juri).
Trailer del film

Vivono insieme, in uno spazio angusto del quale condividono tutto. Chiamano ‘nonna’ l’anziana affittuaria  della casa. Svolgono lavori saltuari e malpagati. E soprattutto fanno la spesa e prendono la merce di cui hanno bisogno senza pagarla. Sono shoplifters, ‘taccheggiatori’ come recita il titolo in inglese, ancora una volta più esatto di quello italiano.
In una sera d’inverno l’uomo e il ragazzo rientrano dall’ennesimo furto e trovano una bambina sola al freddo in un balcone. La portano a casa. Pur con qualche resistenza, alla fine tutti accolgono con affetto la piccola Juri, che nessuno sembra cercare.
Dall’inverno all’estate: tutti insieme al mare, come una vera famiglia. Ma quando il giovane Shota viene scoperto dai commessi di un negozio, comincia la dissoluzione di questa famiglia nata dal bisogno e non dal sangue. Una famiglia che appare come tante altre ed è unita molto più di altre. Morale, giustizia, illegalità, egoismi e slanci si fondono e confondono, come accade ogni giorno nella vita degli umani.
I grandi elogi che il film ha ricevuto dopo la Palma d’Oro ottenuta a Cannes nel 2018 sono probabilmente eccessivi ma un suo sicuro merito è mostrare senza sentimentalismi come nessuna norma morale o codice giuridico possano racchiudere ed esaurire lo spazio della vita. E mostrare come un Paese ricco e avanzato qual è il Giappone capitalistico del XXI secolo non sia in alcune sue pieghe così diverso dalla Francia ottocentesca descritta nei Miserabili  di Victor Hugo.
Un segno distintivo e costante di tale continuità è dato dalla fame. Non una fame inappagata, no, una fame sempre esaudita. Quasi in ogni scena i personaggi mangiano, sgranocchiano qualcosa, si nutrono. Continuamente. L’atavico bisogno di sopravvivere nutrendosi -questa necessità fondamentale di ogni corpo che sia vivo- sta da sempre a fondamento di ogni codice giuridico e di ogni norma morale. Perché sta a fondamento dei corpi animali che gli umani sempre rimarranno.

Giappone

Carmelo Nicosia “Japan, Flight Maps”
Catania – Fondazione Brodbeck arte contemporanea
A cura di Gianluca Collica
Sino all’8 aprile 2018

Il Giappone. Un luogo esotico, fatto di samurai, di impero, di pagode. Un po’ come la Sicilia è fatta di coppole e carrettini. Oppure un luogo ipertecnologico, ultraoccidentalizzato, invaso di merci, ilare e angosciante. O ancora, un luogo antico, immobile, incomprensibile.
Carmelo Nicosia è andato oltre questi paradigmi. Ha guardato e ha lasciato testimonianza del suo sguardo in immagini che coniugano la geometria dei luoghi, il colore della mente -specialmente il blu-, la disperazione delle strade e degli edifici, che intride soprattutto il video digitale Travel Architectures. E poi quattro opere nelle quali Nicosia riprende lo sguardo di altri, lo moltiplica, lo rende seriale, lo intride di storia e di natura, dai vulcani al fungo atomico.
Giuseppe Frazzetto, con il quale ho avuto il piacere e il privilegio di condividere la visita, ha giustamente osservato che Nicosia cerca di ricomporre per quanto è possibile la frammentazione postmoderna di Wim Wenders che, in Tokyo-Ga (1985), moltiplicava lacerti di vita, esaltandone la dissolvenza. Le fotografie di Nicosia costituiscono invece una metonimia che tramite la parte/frammento cerca di comprendere il tutto, anche nel senso di ricomporlo, di coglierne e restituirne un significato.
Poche immagini nel suggestivo spazio della Fondazione Brodbeck di Catania ma sufficienti ad andare oltre il saputo e l’ignoto di una civiltà come quella nipponica, per osservarne il divenire, per fermarne il flusso e trasformarlo in arte. La fotografia, la sua potenza.

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