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Organon

Aristotele
Organon
Categorie, Dell’espressione, Primi Analitici, Secondi Analitici
in «Opere», a cura di Gabriele Giannantoni, volume I
Traduzione e note di Giorgio Colli
Laterza 1982
Pagine LXIV-373

Logica, Metafisica, Etica nel pensiero aristotelico appaiono sempre strettamente legate. Quanto viene acquisito in un ambito contribuisce a chiarire e ad approfondire altre discipline, settori, domande. È anche questo movimento interno della verità – quasi come il sangue che circola in un corpo – a fare dell’opera aristotelica una struttura di pensiero sempre viva, pulsante, attuale, come se fosse stata scritta oggi. Ciò che è stato chiamato Organon, lo strumento della ricerca, non è limitabile al campo della logica pur fondando la logica.
Nelle prime quattro delle sei opere che compongono l’Organon viene, infatti, chiarita la distinzione che è anche metafisica tra le sostanze prime – l’ente singolo nel qui e ora della sua esistenza irriducibile – e le sostanze seconde, i concetti, i generi, gli universali. Non ha quindi senso affermare che una sostanza prima sia più sostanza di un’altra, dato che il semplice esserci qualifica e caratterizza gli enti che sono. La logica mostra qui la sua natura profonda di scienza non antropomorfica, pur costituendo proprio essa una tipica caratteristica umana.

La ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse […]. Allo stesso modo, del resto, tra le sostanze prime nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra; un determinato uomo è infatti sostanza in misura per nulla maggiore di un determinato bue.
(Cat. 5, 2b 15-30)

Se i concetti altro non sono che la generalizzazione degli enti operata dalla mente umana, è chiaro che ogni conoscenza non può nascere che dal contatto con la dimensione concreta degli oggetti singoli, della pluralità infinita e determinata delle cose individuali. La contrapposizione alla gnoseologia del Menone è quindi esplicita: «in effetti, non ci accadrà mai che dell’oggetto singolo sussista una prescienza; si deve dire piuttosto che mentre si sviluppa l’induzione noi assumiamo la conoscenza degli oggetti particolari, come se li riconoscessimo» (An. post. B 21, 67a 22-25; cfr. anche An. post. A 1, 71b 6-10). Non solo: nessuna conoscenza è possibile se si prescinde dalla sensazione «dal momento che noi impariamo o per induzione, o mediante dimostrazione […] non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione» (An. Post. A 18, 81a 39-40, 81b 1-5).
Dal particolare all’universale, dal singolo al concetto, questo è secondo Aristotele il cammino della conoscenza. Dalla sensazione nasce il ricordo, dal ricordo ripetuto si genera l’esperienza. Le forme più alte del sapere, l’intuizione e – a essa subordinata – la dimostrazione, hanno quindi a fondamento la sensazione diventata esperienza. Ma lo Stagirita non è un semplice empirista. Prima di Galilei e della Rivoluzione scientifica, nata più contro gli aristotelici che contro Aristotele, egli aveva chiara la differenza fondamentale tra la semplice osservazione dei fenomeni e la loro comprensione razionale. La percezione da sola non è, infatti, spiegazione: «la conoscenza dimostrativa non si può raggiungere attraverso la sensazione […] La sensazione si rivolge, infatti, necessariamente all’oggetto singolo, mentre la scienza consiste nel render noto l’oggetto universale» (An. post. A 31, 87b 28-35; cfr. anche An. post. A 13, 79a 10-12).

Le Categorie accennano anche alle tesi sviluppate nella Fisica a proposito delle diverse forme del mutamento, qui individuate in sei ma sintetizzabili in quattro: «generazione e corruzione, accrescimento, diminuzione, modificazione qualitativa, movimento» (14, 15a 13-14); elencano poi le dieci categorie: «i termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire» (4, 1b 25); enunciano infine una vera e propria filosofia del linguaggio che ha a fondamento la distinzione tra il nome, il verbo e la proposizione: un nome può diventare vero/falso solo se viene unito a una predicazione-determinazione, la funzione di verità dipende quindi dalla connessione fra i nomi, ciascuno dei quali può essere sensato o meno ma mai da solo può essere vero o falso.
La filosofia del linguaggio viene ulteriormente sviluppata nel De interpretatione. Qui Aristotele afferma con molta chiarezza che «i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (1, 16 a 5). Anche per questo, «nessun nome è tale per natura» e il linguaggio è una delle espressioni peculiari dell’identità umana, intessuta sin dall’inizio di artificio, convenzione, tecnica (2, 16 a 25-30).
Anche qui, come in molti dei suoi scritti, Aristotele ribadisce il principio di fondo – ancora una volta insieme logico, gnoseologico e metafisico – secondo cui «noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente -non già in modo sofistico, cioè accidentale- quando riteniamo di conoscere la causa, in virtù della quale l’oggetto è» e la necessità che lo fa esistere e agire (An. post. A 2, 71b 9-10; cfr. anche An. post. B 8, 93a 4-5).

I risultati più specificatamente logici delle ricerche contenute nell’Organon sono riassumibili nel principio di non contraddizione: «Orbene, non è possibile che delle determinazioni contrarie appartengano simultaneamente allo stesso oggetto» (De interpr., 24b 10); nella delineazione di ciò che gli scolastici chiameranno «quadrato logico» (Ivi, 24b 1-5; An. pr. B, 62a 15-19); nella lucida, approfondita e finanche appassionata discussione dei sillogismi, delle dimostrazioni, dei ragionamenti capziosi come il “circolo vizioso”: «la dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni. Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto» (An. pr. A 4, 25b 30-35). Cfr. anche An. pr. B 16, 64b 25-30, 65a 1-5; An. post. A 2, 71b 19-21; «colui che possiede la dimostrazione universale conosce pure l’oggetto particolare, mentre colui che possiede la dimostrazione particolare non conosce l’oggetto universale» (An. pr. A 4, 24, 86a 12).
Certo, molte pagine dell’Organon sono assai tecniche, a volte oscure e non prive di contraddizioni. Non a caso, la filologia aristotelica trova in esse un campo assai vasto di indagine. E tuttavia, il pensiero dello Stagirita è alla fine sempre lucido, coerente e sistematico; una vera e propria machine à penser. L’aristotelismo è tuttavia un dispositivo sempre consapevole dei limiti che ineriscono al ragionare umano, tanto più grandi quanto più esso si autocostruisce nella formalizzazione logica. Infatti, «su argomenti di questa natura è forse difficile, senza aver condotto ripetute indagini, formulare delle dichiarazioni nette; non è tuttavia inutile l’aver agitato delle difficoltà su questi vari punti» (Cat. 7, 8b 20-25). Ed è proprio tale agitazione uno degli specifici elementi della filosofia.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Transizioni

Transizioni
Aldous, 27 gennaio 2024
Pagine 1-2

A partire dal caso della città dove abito, Milano, ho cercato in questo articolo di analizzare il significato, le contraddizioni e la forte spinta transumanista di alcune recenti tendenze alla “transizione”: transizione digitale, transizione ecologica, transizione di genere.
Tali transizioni sono fondate su un moralismo estremo che intende sostituire (per usare le categorie platoniche) il Vero con il Buono, dove che cosa sia Buono è naturalmente stabilito da chi ha il potere e le risorse economiche per convincere le masse degli spettatori.
Tutto questo è espressione di una posizione storico-politica ancora più ampia: l’occidentalismo. Esso consiste nella certezza che i valori dell’Occidente anglosassone (e non dell’Europa) siano valori universali, indiscutibili e santi. Un occidentalismo molto aggressivo, manicheo e sostanzialmente suicida visto che l’Occidente rappresenta una minoranza sul pianeta, sia dal punto di vista economico sia da quello demografico e in relazione alle risorse naturali.
Il rischio per un’Europa asservita all’ideologia occidentalista è di cadere nella spirale di una transizione verso la propria fine.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Epicuro / La materia

Epicuro
Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica
Prefazione di Francesco Adorno
Introduzione, traduzione e note di Nicoletta Russello
Rizzoli, 2021
Pagine 197

Lettera a Erodoto (sulla fisica): §§ 35-83
Lettera a Pitocle (sull’astronomia/cielo): §§ 84-116
Lettera a Meneceo (sull’etica/felicità): §§ 122-135

La materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo. E dunque l’ambito che studia la materia – la Fisica – è il sapere fondamentale, dal quale gli altri ricevono chiarimento e senso. Anche per questo delle tre lettere nelle quali Epicuro (341-270) riassunse il proprio pensare, il testo chiave è la Lettera a Erodoto, nella quale il filosofo fornisce anche alcune indicazioni di metodo che sono preziose per affrontare qualsiasi tema.

La prima indicazione va la di là della contrapposizione tra induzione e deduzione, in quanto «si dedurrà una puntuale conoscenza dei dettagli, se lo schema generale della teoria è stato ben compreso e fatto proprio dalla memoria» (§ 36, p. 69), se dunque ogni osservazione fisica è resa sensata e feconda da una prospettiva metafisica generale che non si limiti a osservare ma che osservi comprendendo, cercando di articolare il più ampio quadro epistemologico e materico nel quale qualunque osservazione empirica prende avvio, accade, perviene a dei risultati di natura generale.
L’osservazione metafisico-fisica del mondo ci dà le informazioni essenziali su di esso, prima delle quali è la sua infinità nello spazio e nel tempo: «Non c’è dubbio che il tutto è infinito [το πάν άπειρον εστί]» (§ 41; p. 73).
L’intero si compone di mondi infiniti che mai hanno avuto nascita e mai avranno fine poiché «nulla ha origine da ciò che non è […] E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente» (§§ 38-39, p. 71).
La materia, il tutto – τὸ πᾶν – si compone di corpi/enti e di spazi locali nei quali tali corpi si muovono: σῶματα καὶ κενόν (§ 39; p. 73).
Il risultato è che termini come ‘vuoto’ e ‘nulla’ sono delle semplici parole di confine, le quali indicano la pura astrazione negativa del concetto rispetto alla pienezza eternovunque che il mondo è.
Esigenza logica e ontologica è dunque che nella divisibilità dei corpi non si possa arrivare alla loro dissoluzione nel niente e per questo è necessario postulare un confine ultimo della differenza che sono gli ἄτομα, le componenti prime e indivisibili della materia. Gli aggregati di atomi si compongono e si dissolvono ma le loro parti costitutive prime e indivisibili rimangono eterne. Le tre caratteristiche intrinseche alla struttura atomica sono σχήματος, la forma; βάρους, il peso assoluto, non relativo ad altri corpi, vale a dire la massa; μεγέθους, la grandezza.
Il corpomente umano è composto anch’esso di tali elementi. La ψυχή è l’energia della materia diffusa in tutto l’organismo e capace di vivere sino a che l’organismo rimane unitario e composto. Quando si dissolve, con esso si separa ogni altra struttura di identità del corpomente, tornando σῶμα e ψυχή al tutto indistinto dal quale si formeranno altri aggregati, «non è infatti possibile pensare che l’anima sia senziente  fuori da questo complesso di anima e corpo» (§ 66, p. 97). 

L’impersonalità della materia – sostenuta contro il Timeo e gli Stoici – costituisce uno degli elementi centrali di continuità tra la fisica e ciò che chiamiamo etica. La materia e gli dèi, che sono la stessa cosa, sono infatti del tutto impersonali, privi di passioni, impossibilitati ad agire per favorire o per danneggiare i loro composti: «In una natura incorruttibile e beata non può esistere nulla che possa provocare conflitto o turbamento; μη είναι εν άφθάρτω και μακαριά φύσει των διάκριση/ ύποβαλλόντων ή τάραχον μηθέ» (§ 78, p. 107). Proprio questa indifferenza è parte fondamentale dell’essere ‘immortale e beato’ αφθαρτον και μακάριον, che è la vera natura del divino (§ 123; p. 143).
La consapevolezza che tale è la struttura del mondo ci libera dalla paure più grandi, da quei terrori che avvelenano l’esistenza, come il terrore della volontà divina e della morte. Anche lo studio dei cieli, l’astronomia, serve a conseguire tale e tanta serenità. Infatti «nella conoscenza dei fenomeni celesti, connessa ad altre dottrine o fine a se stessa, non vi [è] altro scopo che il conseguimento di imperturbabilità [άταραξίαν] e solide convinzioni, proprio come nelle altre ricerche» (§ 85; p.113).
La serenità è uno dei frutti di tutto questo. Una serenità che conduce a gustare quanto la vita offre di bello, a godere dei piaceri ma – condizione fondamentale – senza essere subordinati ai desideri. La felicità umana coincide piuttosto anche con la libertà dai desideri, oltre che con la libertà dai timori. Epicuro afferma anzi che «l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande; Και την αύτάρκειαν δε αγαθόν μέγα νομίζομεν» (§ 130; p. 149). Evidentemente errate, per non dire insensate, sono dunque le interpretazioni dell’etica epicurea come un atteggiamento di abbandono a ogni e qualsiasi forma del piacere, quando invece è la φρόνησις – la saggezza, la prudenza, la misura – a caratterizzarla, è il «non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima; αλλά το μήτε άλγεΐν κατά σώμα μήτε ταράττεσθαι κατά ψυχή» (§ 131; p. 151).

La felicità della persona/filosofo è pari alla beatitudine degli dèi, è pari alla forza della materia stessa. Sarà dunque possibile vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητψ ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις άγαθοΐς (§ 135; p. 155).
Così si chiude la lettera di argomento etico a Meneceo, fondata – come abbiamo visto – su quelle dedicate alla fisica e all’astronomia. Poiché la materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo.

[Esattamente 424 anni fa, il 17 febbraio del 1600, veniva arso vivo dall’Inquisizione cattolica un altro filosofo che aveva posto al centro dell’ontologia e dell’etica la materia cosmica, Giordano Bruno. In tempi nei quali le inquisizioni politicamente corrette stanno drammaticamente restringendo le libertà di pensiero e di espressione, ricordo i due Dialoghi (entrambi del 1584) nei quali la riflessione bruniana coniuga in modo come sempre complesso e splendido la questione della materia e la necessità della libera parola: De l’infinito, universo e mondi  ;  De la causa, principio e uno ]

Antinatalismo. Storia e significato

Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale
con Sarah Dierna
in Dialoghi Mediterranei
n. 64, novembre-dicembre 2023
pagine 56-75

Indice
-Filosofia e disincanto 
-Sullo stare al mondo
-Antinatalismo: una saggezza antica
-Antinatalismo e religioni
-Illusioni e impulsi
-Egoismo parentale
-Filantropia
-Sine ira et studio

Il saggio che ho scritto insieme a Sarah Dierna – specialista dell’argomento e senza la quale non avrei potuto tentare una sintesi così ampia – è uno dei testi che ritengo più importanti e significativi nel percorso di pensiero mio e, in questo caso, dei miei allievi. Le ragioni dovrebbero emergere dal testo stesso, del quale uno degli studiosi che abbiamo citato, Théophile de Giraud, ci ha detto che «c’est probablement le meilleur article que j’ai lu sur l’antinatalisme». Siamo ovviamente felici di questo riconoscimento.
Aggiungo l’incipit del saggio, che indica le ragioni per le quali abbiamo cercato di pensare la nascita e mediante essa il significato del vivente.

«Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita». 

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Surrogati

Leggendo una lucida riflessione di Marta Mancini dal titolo E l’uomo creò l’uomo («Aldous», 23.5.2023) ho appreso l’esistenza di questo sito: Success. IVF Clinic & Surrogacy Center, che consiglio di visitare con attenzione e a partire dal quale non pongo questioni di carattere etico o giuridico; non chiedo se il desiderio di avere un figlio possa costituire motivo sufficiente per averne anche diritto; e neppure osservo che i Paesi di origine delle donne che vendono il loro ventre siano Cipro, Grecia, Colombia e Ucraina; e che i prezzi per acquistare un pargolo vadano dai 13.000 ai 75.000 €, in relazione alla qualità della materia prima e alla garanzia del risultato.
Pongo una questione diversa e che mi interessa di più: se i cuccioli di Homo sapiens possono essere generati in questo modo, una delle ragioni di fondo non consiste forse nel valore intrinseco dell’umano, che non è superiore a quello di qualsiasi altro prodotto naturale e artificiale, acquistabile e vendibile? Che quindi la pretesa della nostra specie di essere qualcosa di più sia semplicemente patetica? E che la convinzione di costituire «la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, af. 12) sia segno di un’arroganza tanto banale quanto irragionevole?

 

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