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Gli dèi a Milano

Recycling Beauty
Fondazione Prada  – Milano
A cura di  Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica
Sino al 27 febbraio 2023

Il dinamismo di Milano è sempre stupefacente. Luoghi che scompaiono, altri che nascono, più spesso spazi che si trasformano. Una città ovidiana, la cui metamorfosi è costante e, certo, non sempre apportatrice di bellezza e di senso. Le trasmutazioni realizzate nei luoghi dell’archeologia industriale sono tra le più riuscite. Così, a nord di Milano l’antica cittadella della Pirelli è diventata il quartiere Bicocca con Auditorium, Università, lo Hangar che ormai è un luogo classico dell’arte contemporanea. A sud alcune delle fabbriche intorno allo scalo ferroviario di Porta Romana sono diventate dal 2015 la Fondazione Prada. E qui l’antico e il contemporaneo si sono incontrati in una scintilla d’energia che è la mostra Recycling Beauty. 

Nello spazio aperto e vastissimo del Podium e in quello verticale e labirintico della Cisterna il passato  classico e rinascimentale diventa un presente mobile e cangiante, che – nei frammenti che lo compongono – disegna la potenza dell’antico; esprime la sua calma e la forza; innesta in molte sculture materiali di età moderna nelle parti antiche; crea delle esplicite imitazioni rinascimentali di opere venerate e verso le quali il rispetto, la nostalgia, l’ammirazione si volgono quasi nell’invidia di non poter raggiungere la medesima luce che i Greci e i Romani riuscirono a essere.
È pervasivo e molteplice infatti il riutilizzo materiale e formale dei marmi, dei bronzi, dell’εἶδος di cui è fatta l’arte dei pagani. Numerose tra le opere esposte sono diventate cristiane e qui il riutilizzo diventa vitale, essenziale, funzionale all’esistenza, al significato, alla sopravvivenza stessa di quella religione. Appare infatti assai evidente che senza i Greci e i Romani il cristianesimo sarebbe stato soltanto una setta di fondamentalisti esaltati e violenti.
Il prezzo, assai oneroso, pagato dal cristianesimo per sopravvivere è ben espresso nella ricostruzione – qui realizzata per la prima volta – della colossale statua di Costantino, l’imperatore che fece uccidere il suo primogenito, Crispo e fece morire la moglie Fausta bollendola in una vasca. I sacerdoti pagani si rifiutarono di purificare l’imperatore per questi delitti mentre quelli cristiani lo assolsero. Da allora Costantino difese il cristianesimo ma la statua enorme che si fece costruire, sostituendo il volto di Giove con il proprio, conferma come l’infausto imperatore che impose il cristianesimo a Roma era e rimase un pagano, immerso però ormai nella ὕβρις, nell’eccesso che in questa statua  – alta 11 metri occupando due piani di un edificio  – diventa plasticamente evidente. Eccesso che fu uno degli elementi della nuova religione giunta al potere a Roma.

I due grandi spazi nei quali la mostra è distribuita testimoniano il fascino del mondo antico ma soprattutto la sua presenza, la sua ininterrotta fecondità per chi vuole comprendere il mondo e ama, semplicemente, la bellezza.
Sentimenti e concetti che emergono in particolare di fronte alla Minerva Orsay che dal I-II secolo dell’era volgare venne negli anni Trenta del Seicento restaurata dandole mani, piedi e testa di bronzo, a loro volta sostituiti con marmo nel 1776 mentre il corpo della dea riluce sempre di onice dorato. Atena diventa così l’intelligenza fatta di pietra, di alabastro e di magia.

E poi un trono dedicato a Dioniso, proveniente da un teatro greco e che divenne un sedile dei Papi romani.

Un’altra opera affascinante ed emblematica del significato e delle intenzioni della mostra è il Leone che azzanna un cavallo, probabilmente parte di una vasta opera scultorea dedicata ad Alessandro il Grande, che dal IV sec. a.e.v. fu portata a Roma e poi durante il Medioevo posta nel Campidoglio a simboleggiare ancora la potenza della città eterna.

 

Un terzo spazio della Fondazione, la Torre, ospita invece in modo permanente opere e installazioni dell’arte contemporanea. Gli esiti sono, come sempre in questi casi, assai diversi tra di loro. Non mancano le ripetizioni, le imitazioni passive, il semplice mestiere travestito da talento ma si può anche entrare in contatto con alcuni dei modi d’arte emblematici del presente, tra tutti il gigantismo di Jeff Koons, i cui enormi tulipani che adornano il Museo Guggenheim di Bilbao si ritrovano anche in una delle sale di Atlas, la denominazione che è stata data alla raccolta ospitata nella Torre.

Questa Torre è un edificio dal quale lo sguardo si estende e si amplia verso l’orizzonte della città che mai si stanca di mutare, di essere viva. Come vivi sono gli dèi che sorridono anche del loro riciclo.

La Notte

«Eὔφρονες; Benevole»1 e non «Eumenidi» come poi gli alessandrini intitolarono questo testo che dà fondamento alla civiltà mediterranea.
Eὔφρονες, benevole, diventano le tremende e antichissime («παλαιὰς») potenze (v. 727; p. 650). Potenze «νυκτὸς παῖδες ἄπαιδες; figlie senza figli, figlie della Notte», le Erinni (v. 1034; p. 670). A compiere la metamorfosi è stata Atena, la mente, sostenuta e aiutata da Πειθώ, dalla persuasione, dal linguaggio, dalla parola.
Erinni e Atena governeranno insieme e per sempre la città umana. Insieme significa che dentro e dietro ogni splendore della razionalità riposa, gorgoglia e vince la corporeità; dentro e dietro ogni etica sta la vendetta di chi quell’etica è riuscito a imporre a coloro che ha sconfitto; dietro e dentro la Luce di Apollo sta la Notte, Νὺξ μέλαινα, la nera notte della maledizione, della memoria inestinguibile del male ricevuto, del morire che non conosce domani. Dietro ogni esistenza, dietro ogni Dasein, sta la nera notte del nulla, sta il Sein zum Tode:

«ἀνδρὸς δ᾽ ἐπειδὰν αἷμ᾽ ἀνασπάσῃ κόνις
ἅπαξ θανόντος, οὔτις ἔστ᾽ ἀνάστασις.
τούτων ἐπῳδὰς οὐκ ἐποίησεν πατὴρ
οὑμός.
Quando invece la polvere della terra è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto non c’è ritorno, non tornerà alla luce. Mio padre, Zeus, non fa incantesimi contro la morte»
(vv. 647-650; p. 644)

Questo afferma Apollo al culmine del conflitto con Erinni. Apollo, il colpevole, colui che si intesta senza esitazione il matricidio compiuto da Oreste. Apollo che condivide Delfi con il fratello sorridente e tremendo, Dioniso. 

«Βρόμιος ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ᾽ ἀμνημονῶ,
ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός,
λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον.
Bromio è signore del luogo – non lo dimentico: di là il dio mosse con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre»
(vv. 24-26: pp. 598-600).

Se Eschilo sembra cantare e ratificare la Luce che supera l’orrore, la realtà è che la luce è destinata a convivere con l’orrore. Questo racconta la trilogia di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Racconta la vita quotidiana degli umani, il cui dolore è destinato a finire soltanto quando essi stessi finiranno, quando noi tutti spariremo. E Γαῖα, la Terra, respirerà.
La Terra che ha generato la Notte, le Erinni «κόραι, γραῖαι παλαιαὶ παῖδες; le fanciulle decrepite, antiche bambine»  (vv. 68-69; p. 602); «γραίας δαίμονας; dee antichissime» (v. 150; p. 608). La Terra che nel volgersi infinito della materia ha generato il Destino la Μοίρα.
Se «χρόνος καθαιρεῖ πάντα; il tempo passa e purifica ogni cosa» (v. 286: p. 618), tale purificazione – quella destinata certamente a prodursi – è semplicemente la fine dell’umano nella storia, nello spazio, nel mondo.
Fine che Erinni prefigura due volte con gli stessi versi a breve distanza:

«ἐπὶ δὲ τῷ τεθυμένῳ
τόδε μέλος, παρακοπά,
παραφορὰ φρενοδαλής,
ὕμνος ἐξ Ἐρινύων,
δέσμιος φρενῶν, ἀφόρ-
μικτος, αὐονὰ βροτοῖς.
E per la vittima sacrificale
questo canto – delirio
follia frenesia –
inno di Erinni si innalza,
canto che incatena la mente. Canto senza
suono di cetra, che annienta la stirpe mortale»
(vv. 328-333; 341-346; pp. 620-621).

Alla fine, come in Sette contro Tebe (855-860), il paese oscuro che tutti accoglie è il Nulla da cui siamo scaturiti, è la «tenebra priva di luce; δυσήλιον κνέφας» (v. 396; p. 624).
E sarà, finalmente, la pace2.


Note

1. Eschilo, Eumenidi (Εὐμενίδες, 459 a.e.v.), verso v. 992; p. 668,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

2. Con questo testo si conclude l’analisi delle tragedie di Eschilo da me tentata in questo sito. La versione completa è stata pubblicata nel volume 5 (2022) della rivista Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo. Il saggio si può scaricare e leggere anche da qui: Eschilo, il fondamento.

Gangster

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Musiche di Andrea Chenna
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Le Erinni), Olivia Manescalchi (Atena),  Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Maria Grazia Solano (la Pizia), Sax Nicosia (voce e immagine di Agamennone)
Regia di Davide Livermore
Sino al 31 luglio 2021

Un’opera lirica. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman.
La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia.
Tutto questo diventa invece nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata.
Così come Atena e altri personaggi, immersi in una recitazione da commediola novecentesca, nella quale le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa -alla lettera- la bella statuina. Per concludersi tutto, insieme alla ricordata canzonetta finale, sulle immagini di Aldo Moro nella Renault, delle stragi di Bologna e di Capaci e altre italiche tragedie.
Perché è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. E dalle pistole. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite.
Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.
L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori -è un’iperbole ovviamente- si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.

«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»

(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)

Delfi / Atene

Ione è un mito di fondazione dell’identità ateniese. Al pari di tutti i racconti di questa natura, è costruito come una favola di riconoscimento, nella quale un bambino dato alla luce in segreto, esposto alla morte, raccolto da un dio, ritrova alla fine i propri parenti, coloro che gli hanno dato vita.
Ione è figlio di Creusa, regina di Atene, e di Apollo, che la prese contro la sua volontà e si occupò del bambino che ne nacque. Creusa accompagna a Delfi il marito Xuto, il quale vuole sapere dal dio se c’è qualche possibilità che loro abbiano dei figli. Apollo dà a entrambi la gioia di una risposta che è lo stesso ragazzo, Ione, loro figlio, sì, ma per ragioni e in modi ben diversi.
Ironica è sempre la divinità, una vera divinità, poiché –come afferma alla fine Atena– «lenta, forse, ma efficace è l’azione degli dèi»1. Ironica, lenta e flussica, poiché «questa è la vita: nulla resta fermo» (298).
Ingiustamente negletta, questa tragedia è invece fondante poiché vive al confine tra la potenza insuperabile della Terra –ben descritta nelle statue e nei fregi della Gigantomachia che adornano il tempio di Apollo– e l’avvento della πόλις umana nella storia. La lotta tra gli dèi e quella tra i mortali ribadisce il limite dei viventi rispetto alla perennità della φύσις: «Gli uomini sono tanti e tante sono le sventure: divergono le forme. A stento un caso di felicità si può trovare nella vita umana» (277).
A regalare questa felicità sono solo gli dèi, soltanto loro possono. E qui lo fanno al culmine della lotta tra il figlio che non sa d’essere figlio e la madre che non sa d’essere madre. I due vogliono reciprocamente uccidersi. E lo farebbero se non intervenisse la Pizia che «ai Greci cantando gli oracoli / la voce ad Apollo dà suono» (264), svelando che Creusa è la genitrice di Ione. L’odio e la morte si trasformano così d’acchito in amore e futuro. Ma Ione non è ancora certo che Creusa non cerchi di attribuire ad Apollo ciò che in realtà è venuto da un mortale. Atena stessa deve dunque comparire per convincere il giovane con le sue parole luminose, esatte, incontrovertibili.
Atena parla a nome del fratello, che qui non dice una parola ma che è presente in ogni riga. Altro non poteva darsi in una vicenda che accade a «Delfi, in questa terra dove Febo, sedendo proprio all’ombelico del mondo, dà profetici responsi sul presente e il futuro a tutti gli uomini» (261).

1. Euripide, Ione (Ἴων), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 321.

μυθος

Il mito è l’essenza stessa del linguaggio e della vita. Comunità, etnie, individui, popoli, in esso abitano e in esso si specchiano. Alla radice di tale potenza c’è secondo Robert Graves la donna. Un matriarcato ontologico fa sì che nel «complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava l’uomo, sua vittima sgomenta» (Robert Graves, I miti greci, trad. di Elisa Morpurgo, Longanesi 2011, § 1, p. 22)
La Terra è femmina; le Erinni -«Tisifone, Aletto e Megera» che «vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpi» (§ 31, p. 108) sono femmine; le Moire/Parche (Clòto, Làchesi e Àtropo) sono femmine; Afrodite (potenza del corpo) è femmina; Atena (la mente) è femmina; persino l’autrice dell’Odissea è probabilmente una femmina, e già Samuel Butler «vide in Nausicaa l’autoritratto dell’autrice, una giovane e geniale nobildonna siciliana del distretto di Erice» (§ 170, p. 678), la quale costruì sotto l’apparenza di un poema il primo romanzo greco, la cui geografia va dalla Sicilia alla Norvegia.
Dentro tutto questo e dietro ogni mito, Graves scorge la presenza della Dea Bianca -rappresentata dalla Luna e dalle sue fasi-, della sua potenza, della sua attrazione, del suo divenire. Nulla a che fare, quindi, con resoconti e letture soltanto filologiche -anche se l’erudizione di Graves è immensa- né con le banalità psicologiche di Freud e Jung, che riducono il Cosmo alla misera misura del cervello umano -«Secondo quell’antico culto il nuovo re, benché straniero, era considerato in teoria figlio del vecchio re che egli uccideva, sposandone poi la vedova: una consuetudine che gli invasori patriarcali interpretarono erroneamente come parricidio e incesto. La teoria freudiana che ‘il complesso di Edipo’ sia un istinto comune a tutti gli uomini, fu suggerita dal fraintendimento di questo aneddoto. Plutarco, pur narrando (Iside e Osiride, 32) che l’ippopotamo ‘uccise il genitore e violentò la genitrice’, non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell’ippopotamo» (§ 105, p. 342). Qui non ci sono neppure attualizzazioni o classicismi. L’autore semplicemente racconta i miti e in questo modo mostra tutta la loro potenza, oggi come ieri, come sempre.

Li racconta esponendo un numero assai grande di varianti quasi per ogni nome e per ogni circostanza. E questo conferma che anche il mito, come la filosofia,  è un gioco di Identità e Differenza nel quale si esprime la ricchezza senza fine del tempo.
Ci sono tutti i miti dei Greci, proprio tutti anche i più sconosciuti, ci sono tutti i personaggi, tra i quali emergono Eracle con la sua immensa forza; Odìsseo, il quale «è un personaggio chiave della mitologia greca» proprio perché «sebbene fosse nato da una figlia del corinzio dio del Sole e avesse conquistato Penelope all’uso antico, vincendo una corsa podistica, egli infrange la secolare legge matriarcale, insistendo perché Penelope venga a vivere nel suo regno anziché trasferirsi in quello di lei» (§ 160, p. 602); il titano Encèlado, contro il quale Atena scagliò il masso che uccidendolo lo trasformò nella Sicilia; Cecrope animalista, il quale «offriva agli dèi soltanto focacce d’orzo, astenendosi persino dal sacrificare animali» (§ 38, p. 125); Dedalo che visse a lungo «tra i Siciliani, costruendo molti splendidi edifici» (§ 92, p. 284); Medea, la maga più potente di tutte, che «non morì mai, ma divenne immortale e regnò nei Campi Elisi dove alcuni sostengono che fu lei, e non Elena, la sposa di Achille» (§ 157, p. 573); Penelope, che se per Omero/Nausicaa rimase fedele al suo sposo, secondo altre tradizioni fu in realtà la madre di Pan, da lei nato «dopo che essa si accoppiò promiscuamente con tutti i suoi pretendenti durante l’assenza di Odisseo», versione che «si ricollega alla tradizione delle orge sessuali pre-elleniche» (§ 160, p. 603).

E poi ancora: la guerra, come quella paradigmatica di Troia che aveva opposto l’Asia all’Europa, che Zeus e Temi fecero scoppiare forse per rendere famosa Elena oppure per esaltare e confermare la potenza dei semidei che la combatterono «e al tempo stesso decimare le tribù popolose che opprimevano la faccia della Madre Terra» (§ 159, p. 584); i costumi, come l’usanza di vestirsi di nero in occasione dei lutti, prodotta dal bisogno «di ingannare le ombre dei morti, alterando il proprio aspetto» (§ 114, p. 396); l’illusione, generata da Prometeo per evitare la distruzione totale, conseguenza di Pandora -la prima donna mortale, «che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei»-, la quale aprendo il vaso che conteneva ogni male portò agli umani «la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. […] Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio» (§ 39, p. 130); la vendetta, Nemesi figlia di Oceano, la cui «bellezza è paragonabile a quella di Afrodite» (§ 31, p. 111), il cui appellativo di Aδράστεια -l’ineluttabile- la rende ben più sovrana di Zeus, del quale fu nutrice.

Su questa Luce splende la potenza dei due ἀδελφοί, dei fratelli Apollo e Dioniso. Il primo «predicò la moderazione in ogni cosa» e tuttavia fu anche capace di furia tremenda (§ 21, pp. 69-71). Il secondo, molto vicino al mondo femminile tanto da essere «di solito rappresentato come un giovane effeminato dai capelli lunghi e la sua maschera poteva essere scambiata per quella di una donna» (§ 79, p. 237), inventò il vino e ogni forma di ebbrezza, «andò vagando per il mondo, accompagnato dal suo tutore Sileno e da un gruppo frenetico di Satiri e di Menadi», fu in grado di trasformarsi in serpente, «in leone, in toro, in pantera», e fare impazzire chiunque volesse, «spargendo gioia e terrore ovunque passava» (§ 27, pp. 92-93) e tuttavia fu anche capace di porre termine ai «riti più antichi e primitivi […], al cannibalismo e all’omicidio rituale» (§ 72, p. 213).
L’incrocio di identità e di destini tra Apollo e Dioniso è un chiasmo sacro, nel quale i miti dei Greci raggiungono pienezza, significato, luce e sostanza. La resurrezione annuale di Dioniso «continuò a essere celebrata a Delfi, dove i sacerdoti consideravano Apollo la parte immortale di Dioniso» (§ 27, p. 96).

Alieni

Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesco Venezia
Sino al 10 gennaio 2016

160-P74Natura e materia. Altro non c’è nel mondo, altro non è neppure pensabile. La potenza inimmaginabile ed eterna della Terra e del Cielo genera tutte le forze che plasmano gli enti e si contendono il dominio sul divenire. I nomi degli dèi sono i nomi degli alberi e delle foreste, dei raccolti, delle acque, degli antri, dei vortici, delle stelle. Dioniso -una cui statua incoronata di pampini apre la mostra e la cui presenza tutta la pervade- è la vite; Apollo è palma e alloro; Zeus è la quercia; Atena l’ulivo; Demetra  è la spiga di grano. Da queste forze sgorga l’agricoltura come dono degli dèi: il vino, i cereali, l’olio, la frutta, l’ombra, lo stormire del vento tra le piante.
Circa centocinquanta opere dall’VIII sec. prima dell’e.v al II sec. dopo l’e.v. testimoniano di questa Stimmung, di questa potente tonalità dell’esistere e del pensare. Tra di esse un bel cratere ateniese con disegnate sul bordo delle navi da guerra che avanzano sul mare; un grande bacile con Viaggio di Nereidi su mostri marini per consegnare armi ad Achille, splendido anche perché policromo; un elegantissimo lekytos (vaso per unguenti) con sfondo bianco che raffigura Demetra con spighe nella mano e in compagnia della figlia Persefone; vari paesaggi nilotici ritovati a Roma; i lussureggianti giardini raffigurati a Pompei, a Paestum e in altre località, emblema della potenza che è il divino. Il Giardino delle Esperidi si trova all’estremo Occidente del mondo e rappresenta il luogo dove vivere felici. Non un paradiso eterno come retribuzione degli atti compiuti in qualche decina d’anni -contraddizione clamorosa che rende assurda ogni idea di premio o castigo dopo la morte- ma semplicemente e profondamente un luogo terrestre dove la felicità è possibile, dove l’animale che pensa è una cosa sola con la lussureggiante vegetazione, con gli altri animali, con gli dèi.
Ovunque l’interazione e l’integrazione tra architettura e paesaggio è profonda, lontanissima dallo stupro urbanistico ed ecologico del nostro tempo.
Infine, colma di gioia e di commozione è la Tomba del tuffatore, dipinta a Paestum nel V secolo. Un giovane spicca un tuffo da un piedistallo che forse rappresenta le porte dell’Ade. Nelle acque fioriscono delle belle piante e nella tomba sono raffigurate scene di vita. Il tuffo è anche una metafora del passaggio dalla vita alla morte. Questa magnifica opera è pervasa da una tale serenità e da un così intimo rapporto con gli elementi naturali da essere impensabile nel cristianesimo e negli altri monoteismi, tutti volti al macabro, al lugubre, al doloroso, al disprezzo della vita.
Davvero i Greci -e gli antichi in generale- rimangono degli alieni, nonostante secoli di studi su di loro. Rimangono alieni della serenità, del disincanto, della misura. Questa splendida mostra milanese ci fa almeno intuire perché tali siano e tali restino.

In principio la parola

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Monica Centanni
Scene e costumi di Arnaldo Pomodoro
Musiche di Marco Podda
Con: Francesco Scianna (Oreste), Francesca Ciocchetti (Elettra), Elisabetta Pozzi (Clitemnestra), Graziano Piazza (Egisto), Ugo Pagliai (Apollo), Paola Gasmann (Pizia)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 21 giugno 2014

Mentre Atena proclama il Diritto, e con ciò fa nascere la città umana, ricorda però ai Greci e a noi tutti che le forze ctonie delle figlie della Notte -le Erinni- andranno onorate per sempre. E che quindi sarà necessario rispettare la terra feconda, il mare infinito, i venti che portano forza. Esattamente quello che non facciamo più, nel disprezzo antropocentrico per ciò che chiamiamo «Natura» separando da essa l’umano. «Sciagurati!», potremmo dire al modo dei Greci.
E invece la Pizia sa bene che persino nel luogo sacro ad Apollo -a Delphi- Dioniso «possiede il paese -no, non mi fugge di mente!- da quando, capo divino, capitanò le Baccanti» (Eum., vv. 24-26; trad. di Ezio Savino). Il rapporto triplice tra Atena -femmina nata senza bisogno di madre e il cui «favore va sempre alla parte maschile» (ivi, 737)-, Apollo -maschio che nega recisamente alla madre che sia lei a produrre il suo frutto, «solo, nutre il gonfio maturo del seme» (ivi, 659)- e Dioniso -immagine senza sesso e splendente ma pur sempre vicina alle Furie- scandisce l’ambigua identità della donna nell’Orestea. La trilogia sembra decisamente ostile all’elemento femminile. Alle origini e nei modi di ogni male ci sono infatti delle donne, la loro follia umana e divina: Elena, Clitemnestra (della quale il figlio esclama «Mai mi affianchi nella casa una consorte simile!»  [Coe., 1005]), Elettra, le Erinni. E tuttavia le perdenti e poi vincenti -le Erinni/Eumenidi- e il giudice supremo, Atena, sono forma femminile al comando del mondo, della storia, del cosmo.
La Dea della mente dopo aver finalmente persuaso le Furie a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile ira, così di se stessa canta il trionfo:

Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita.
(Coe., 928-934)

E in che modo, con quale mezzo, Atena è riuscita a simile impresa? Con la parole, lo dice lei stessa. Con le parole che Πειθώ -la Persuasione- le ha suggerito. È la Parola dunque a fondare il campo umano, a dare alla specie la forma che salvaguarda dall’orrore che Furia diffonde nel mondo.
Il bisogno di Vendetta impellente, trafelato e insieme incerto, che guida Elettra, Oreste e il coro nelle Coefore  e che sùbito diventa balbettio e terrore di fronte al matricidio, può sciogliere il nodo violento della propria incertezza soltanto di fronte alla persuasione di Apollo, il quale disprezza le Erinni, e alla persuasione di Atena che sa renderle amiche. Entrambi, Atena e Apollo, emblema della parola che pensa e che nel pensare produce le azioni, il senso, la vita.
Non erano necessarie, per narrare questo prodigio, una recitazione e una regia a volte un po’ troppo urlate e lontane dall’equilibrio che sempre in Eschilo splende tra il furore e la calma dei versi, soprattutto nelle Coefore. Efficace, invece, la nebbia che dà inizio alle Eumenidi e la sua conclusione nel sole di Apollo. Le scene di Arnaldo Pomodoro sono le più adeguate a esprimere la presenza della parola di Eschilo sin nei gangli più antichi dell’essere umano e nei nostri.

 

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