Skip to content


Cristianesimo e Filosofia

L’insieme degli scritti con i quali filosofi come Celso, Porfirio, Giuliano, Ierocle criticarono e confutarono  la demens superstitio -‘l’irrazionale superstizione’– dei cristiani ci è noto quasi soltanto dalle citazioni, dalle polemiche, dalle refutazioni e manipolazioni dei cristiani stessi, poiché i testi originali furono distrutti e bruciati in modo sistematico dai loro avversari.
È questo il dato al centro della ricostruzione accurata, anche se a volte ripetitiva, che Marco Zambon in «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei filosofi antichi (Carocci, 2019) conduce del tentativo attuato dai filosofi antichi, nell’età che va all’incirca da Marco Aurelio a Giustiniano (II-VI secolo),  di mostrare l’incompatibilità tra il loro mondo e la fede dei cristiani.

Filosofia e fede cristiana sono inconciliabili per tre ragioni fondamentali.
La prima concerne lo statuto della verità, che per la filosofia è una ricerca sempre aperta, svolta a partire dalla convergenza tra ciò che si osserva del mondo – il dato empirico e quello fenomenologico – e la riflessione razionale che viene condotta su di esso. Per i cristiani, invece, la verità è un dato della rivelazione al quale si accede con la fede e che rimane sempre identico, incontestabile, fuori da ogni discussione e argomentazione.
La seconda ragione riguarda lo statuto del divino, che per la filosofia è plurale e molteplice, mentre per il cristianesimo e le altre religioni del Libro è un’identità monoteistica che respinge da sé ogni differenza.
La terza ragione si riferisce allo statuto dell’umano, il quale per la filosofia ha nel mondo una specificità che non diventa mai privilegio ontologico e superiorità assiologica. Privilegio e superiorità che conducono a immaginare un dio che diventa egli stesso uomo e che persino muore tra sofferenze atroci per salvare gli umani da lui stesso condannati. Il «carattere spiccatamente antropomorfo e l’irrazionalità del loro Dio […] indicavano la natura non filosofica della religione dei cristiani» (p. 257), alla quale Celso oppone un atteggiamento ancora una volta plurale e che oggi definiremmo animalista. Il filosofo infatti, 

polemizzava contro l’antropocentrismo dei cristiani, partendo dal principio che ‘le cose tutte non sono state generate per gli uomini più che per gli animali privi di ragione’ (Cels. IV 74). Egli si sforzava, perciò, di mostrare la superiorità naturale degli animali rispetto all’uomo (dal momento che non hanno bisogno di coltivare la terra per nutrirsi, né servono loro strumenti per attaccare gli uomini e divorarli; Cels. IV 76, 78-79) e il fatto che anch’essi avessero una complessa organizzazione sociale, conoscessero  le scienze, praticassero il culto degli dèi (Cels. IV 81. 83-85. 88. 98 (p. 315).

Ai tre elementi fondamentali concernenti la verità, il divino e l’umano, si aggiungeva l’inaccettabile rozzezza concettuale e stilistica del linguaggio biblico, della quale molti tra gli stessi apologeti cristiani erano consapevoli, costituendo anche «per loro un serio ostacolo e un motivo di imbarazzo» (p. 184), che cercavano di superare con una lettura radicalmente allegorica della Bibbia; lettura della quale il maggiore sostenitore fu Origene.

Questi elementi di dottrina si coniugavano con i comportamenti pratici dei cristiani, i quali in generale «negavano ogni dignità agli dèi visibili, gli astri, e però veneravano un cadavere» (p. 99) e lo strumento che era servito al suo supplizio, la croce. In particolare, poi, i monaci, descritti dai cronachisti dell’epoca ricordano l’abbigliamento, le pratiche e la violenza dagli attuali militanti dell’Isis, ai quali li accomuna la certezza di detenere l’unica verità e una fede salvifica. Eunopio, ad esempio, «dopo aver narrato la distruzione del serapeo di Alessandria, compiuta nel 391 sotto il patriarcato di Teofilo, ‘capo dei maledetti’ (V. soph. VI 11, 2), descrive in questi termini l’occupazione del sito da parte di monaci cristiani:

6 In seguito, introdussero in quei luoghi sacri i cosiddetti ‘monaci’; uomini, per quel che riguarda l’aspetto, ma, quanto alla loro vita, maiali, che apertamente tolleravano e compivano innumerevoli cose malvagie e indescrivibili. Eppure questa pareva loro pietà: disprezzare il divino. 7. Allora, infatti, aveva un potere tirannico chiunque indossasse un abito nero ed esercitasse in pubblico una condotta indegna
(Eunopio, V. soph. VI 11, 6-7; p. 100). 

L’atteggiamento violento dei cristiani verso i loro avversari e verso i beni altrui si manifestava anche e appunto nella «violenza con la quale i monaci s’impadronivano delle terre dei contadini, dichiarandole sacre e saccheggiandole» (101).

La violenza appare talmente intrinseca alle fedi monoteistiche da esprimersi nella violenza anche verso se stessi, come risulta chiaro dalla questione delle persecuzioni verso i cristiani, le quali – tranne in pochi e circoscritti intervalli temporali – furono in realtà una invenzione degli apologeti e della storiografia cristiana.
Le leggi romane e i loro giudici furono infatti per lo più riluttanti a punire i cristiani. L’imperatore Traiano ordinò che essi non venissero cercati e non si desse seguito a denunce anonime nei loro confronti. Anche quando arrivavano a processo, le condizioni per andare assolti erano assai miti. Come molti altri, il proconsole Saturnino «chiedeva ai cristiani non di rinunciare alle proprie convinzioni, bensì di giurare ‘per il genio del nostro signore, l’imperatore’ e di offrire  ‘suppliche per la sua salute’ [Act. Mart. Cil. 1-14]; una cosa che gli sembrava del tutto ragionevole, compatibile con una sana e semplice pietà religiosa e con i doveri di un cittadino romano» (72). La risposta dei cristiani era per lo più pervasa di una fede millenaristica che li rendeva certi della imminente fine del mondo e li induceva quindi a cercare essi stessi la condanna a morte. A confermarlo è un testimone del tutto affidabile, uno dei più tenaci difensori del cristianesimo, Tertulliano, il quale scrive che «mentre Arrio Antonino in Asia li perseguitava duramente, tutti i cristiani di quella città, radunatisi insieme, si presentarono al suo tribunale. Egli allora, dopo averne fatti portare alcuni a morte, disse agli altri: ‘Miserabili, se volete morire, avete i burroni oppure impiccatevi!’ (Tert. Ad Scap. V 1)» (p. 97).
In generale, «prima di Costantino, i cristiani non sono vissuti in uno stato di persecuzione generalizzata; anzi, hanno potuto contare per lo più su un’ampia tolleranza di fatto da parte delle autorità» (359). Una volta arrivati al potere, il loro atteggiamento verso quanti continuavano a rimanere fedeli all’antica religione fu invece molto violento: distruzione sistematica dei templi e degli altri luoghi di culto pagani, incendio delle biblioteche che conservavano libri e documenti di culture millenarie, omicidi individuali e stragi collettive (cfr. Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri, 2018)

Violenza che divenne atto giuridico repressivo con l’editto emanato nel 380 a Tessalonica da Graziano, Valentiniano e Teodosio: «Ordiniamo che coloro che seguono questa legge siano compresi sotto il nome di cristiani cattolici, mentre tutti gli altri, considerandoli dissennati e folli, ordiniamo che sopportino l’infamia della loro dottrina eretica e le loro conventicole non ricevano il nome di Chiese; essi devono essere puniti anzitutto dalla vendetta divina, poi anche dalla pena comminata dalla nostra iniziativa, ispirata dalla volontà celeste (Cod. Theod. CVI 1,2 = CIC Cod. I, 1,1)» (p. 418). A questo editto si aggiunse la costituzione dell’8 novembre 392 con la quale Teodosio «vietava il culto pagano in qualsiasi forma su tutto il territorio dell’Impero (Cod. Theod. XVI 10, 10-12)» (p. 420). Violenza rivolta non soltanto ai pagani ma a chiunque non seguisse il credo cristiano come era stato stabilito nel 325 al Concilio di Nicea.
Quando Celso scrive che «‘nessun dio, o giudei e cristiani, e nessun figlio di dio è mai sceso, né potrebbe scendere quaggiù’ (Orig. Contra Celsum [Cels.] V 2)» (p. 13), questo significa anche che nessuna fede assoluta nella parola e negli insegnamenti di un uomo – tanto più se quest’uomo si presenta come un dio – può esimere il cammino umano dalla fatica del comprendere e del costruirsi. Diventare umani implica non l’accoglimento acritico «di un intervento proveniente dall’esterno, ma l’attuazione, faticosa e progressiva, della propria vera natura da parte di un’anima a ciò preparata» (296).
È anche per questo che la filosofia riemerge sempre dalle macerie delle certezze fideistiche, perché il bisogno e l’inquietudine della ricerca appartengono alla natura stessa dell’animale umano.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Evoluzionismo, un paradigma

Lunedì 12 febbraio 2024 alle 15.30 in occasione del Darwin Day terrò una relazione dal titolo Evoluzionismo, un paradigma. La sede è l’Orto Botanico dell’Università di Catania. L’evento è organizzato dal Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali e da quello di Scienze umanistiche.
Il titolo della mia relazione si riferisce al concetto epistemologico di paradigma come è stato proposto da Thomas Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche.
Nel 1970 il premio Nobel Jacques Monod affermava che all’origine di alcuni errori e insufficienze della teoria darwiniana «vi è naturalmente l’illusione antropocentrica. […] La teoria dell’evoluzione, lungi in un primo tempo dal dissipare l’illusione, sembrava anzi conferirle una nuova realtà facendo dell’uomo non più il centro, ma l’erede da sempre atteso, naturale, dell’intero universo. Dio poteva morire, sostituito da questo nuovo e grandioso miraggio. […] Si dovette giungere alla seconda metà del Novecento perché svanisse il nuovo miraggio antropocentrico innestato sulla teoria dell’evoluzione» (Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori 2022, pp. 44 e 45).
Nel XX secolo sono state elaborate ipotesi evoluzionistiche anche molto diverse rispetto a quelle classiche. La più nota e una delle più recenti è quella degli ‘equilibri punteggiati’ (punctuated equilibrium) di Gould e Eldredge, la quale presuppone una fissità di fondo delle specie interrotta da rapide mutazioni (‘rapide’ sempre in una prospettiva geologica).
Ma già Darwin, che non era affatto dogmatico, aveva rivisto la sua originaria teoria, ridimensionando la funzione della selezione naturale e del caso nella trasformazione dei viventi. Ancora Monod distingue il caso come viene inteso «nel gioco dei dadi o della roulette» dalle «’coincidenze assolute’, che risultano dall’intersezione di due sequenze causali totalmente indipendenti l’una dall’altra» (Il caso e la necessità, pp. 111-112).
Come  regolarmente accade (si pensi al dogmatismo degli aristotelici, ben diverso dalla curiosità critica e sempre aperta di Aristotele), i successori si trasformano spesso in discepoli, caratterizzati da una chiusura epistemologica che l’iniziatore della scuola avrebbe certamente respinto.
Una mia analisi del paradigma evoluzionistico si trova anche in un recente saggio dal titolo Evoluzionismo e cosmologia, pubblicato sul numero 14 (dicembre 2023) de Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee.

 

 

 

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Sulla coscienza

Una coscienza antropodecentrica
in ATQUE. Materiali tra filosofia e psicoterapia
numero 30-31, n.s, 2023
Mente, cervello, ambiente: questioni
pagine 105-120

Abstract
Among the most fruitful results of a philosophy of the mind open to the contribution of the biological sciences there is also the bringing back of the human being and his awareness of being there to the wide world of animal sensitivity. Ancient dualisms and new reductionisms are thus overcome in a perspective that can be defined as zooanthropology/etoanthropology, capable of reading every species, every function and every conscience of the world as an expression of an anthropodecentric richness that safeguards the identity of life and the difference of his expressions.

Tra i risultati più fecondi di una filosofia della mente aperta al contributo delle scienze biologiche c’è la riconduzione anche dell’umano e della sua coscienza d’esserci all’ampio mondo della sensibilità animale. Antichi dualismi e nuovi riduzionismi vengono in questo modo oltrepassati in una prospettiva che può essere definita zooantropologia/ etoantropologia, capace di leggere ogni specie, ogni funzione e ogni coscienza del mondo come espressione di una ricchezza antropodecentrica che salvaguarda l’identità della vita e la differenza delle sue espressioni 


Indice
-Coscienza e ontologia
-Al di là del primato della coscienza
-Filosofia della mente
-Zooantropologia
-Antropodecentrismo
-Identità e Differenza
-Coscienza e corpomente animale

Riconoscerci in tutto e per tutto come gli animali che siamo significa accettare la carnalità dei nostri bisogni senza la pretesa di dominarli con uno sguardo soltanto razionale. L’ontologia relazionale diventa così forma ed espressione dello sguardo filosofico, da sempre sapiente del limite, e ci aiuta a oltrepassare il teatro cartesiano nel quale soggetto e oggetto recitano stancamente la loro parte, mentre tutto intorno il mondo continua a essere ciò che è sempre stato: un intero che accoglie distinzioni epistemologiche, affinché una sua parte possa comprenderlo meglio, ma non conosce separazioni ontologiche, data l’oggettiva e feconda continuità delle sue strutture.
Il principio di base per una comprensione del mondo animale, umano compreso, è quello della Differenza, della diversità specie-specifica che non significa minorità o carenza ma semplicemente una diversa dotazione adatta a differenti contesti ambientali e funzionali.
La negazione dell’animalità umana si fonda e insieme si esplica nella negazione dell’identità e della differenza. Negazione della differenza poiché lo specismo non riconosce la varietà non gerarchica della vita. Negazione dell’identità che accomuna l’intera animalità in quanto vita attiva della materia. Una negazione che sta alla base della presunzione umana di costituire qualcosa di speciale nell’essere. L’umano è unico, certamente, come unica è la forma di esistenza di ogni altro vivente.
Specismo è anche esser convinti – come sono molte filosofie della storia e opzioni politiche ‘progressiste’ – che una natura umana non esista e che Homo sapiens sia un’entità del tutto storica, volontaristica e autopoietica. E tuttavia attribuire una ‘natura’ a ogni altro vivente e negarla al vivente umano è il culmine teorico di ogni concezione specista della ζωή.
Se percepire ciò che si sta vivendo mentre lo si sta vivendo è ciò che definiamo coscienza, essa è comune a tutta l’animalità e non soltanto all’umano, è comune in forme differenti, complesse, molteplici e mirabili. 

Nel cosmo perfetto

Emil M. Cioran
La caduta nel tempo
(La chute dans le temps, Gallimard 1964)
Trad. di Tea Turolla
Adelphi, 1995
Pagine 131

Ogni filosofia che voglia intendere l’intero e non una sua parte perviene prima o poi alla comprensione o almeno all’intuizione di una differenza ontologica, perviene alla necessità di attribuire agli enti la loro giusta misura senza rendere nessuno di loro un elemento dominante nel cosmo perfetto e infinito.
La fecondità teoretica, e non soltanto esistenziale e stilistica, di molte pagine di Emil Cioran è dovuta proprio a questa differenza ontologica per la quale «la salvezza viene dall’essere, non dagli esseri» (p. 19). Coerente con questo bisogno di antropodecentrismo – che in altre pagine e tesi viene in realtà trascurato o negato nell’eccessivo peso che Cioran attribuisce alla sofferenza dell’accidente umano – lo scrittore individua ed elogia con grande chiarezza e con la consueta efficacia la differenza che il non umano rappresenta rispetto ai limiti della nostra specie.

Differenza rispetto all’energia e alla forza degli altri animali, che sono più in armonia con il mondo al quale appartengono, mentre l’umano ha bisogno di un continuo esercizio di ingegno per sopravvivere. Non Homo sapiens, dunque, «bensì il leone o la tigre avrebbero dovuto occupare il posto che egli detiene nella scala delle creature. Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio. Una belva, non provando mai il bisogno di accrescere la propria forza, che è reale, non si abbassa all’utensile» (16). Indicazione interessante anche per una filosofia della tecnica.
Differenza rispetto alla calma perfezione dei vegetali, nei quali Cioran individua a ragione «qualcosa di sacro», tanto che «colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano» (127).
Differenza rispetto all’inanimato e all’inorganico poiché «la vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte: la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi» (85). Una pace che è ben chiara a  Sāriputta, discepolo del Buddha, convinto che il Nirvāna sia felicità, «e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sāriputta risponde: ‘La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione’» (56). Cioran ne deduce che «il paradiso è assenza dell’uomo» (79), e io aggiungo assenza di ogni altro animale, di ogni altro dispositivo in grado di provare dolore ed esserne consapevole.
Differenza infine rispetto agli enti né animali né vegetali, gli enti che vivono «il sonno beato degli oggetti» (11).
La differenza ontologica diventa così differenza anche etica e soprattutto differenza esistenziale tra ciò che appare già segnato dalla consapevolezza della morte e ciò che emerge dal tempo come sua oggettiva incarnazione che durerà quanto la sua struttura chimico-fisica gli consentirà di durare ma non potrà esperire nessuna inquietudine in relazione a tale più o meno lunga durata. La differenza si pone tra gli enti i quali non possono rimettersi «dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono» e gli altri, tanto che «è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove» (40).

Tra queste prove ce ne sono molte nelle quali l’umano eccelle, che si inventa nella ingegnosa creazione dei mali che è capace di moltiplicare verso le direzioni più varie. Un esempio è la recente tendenza collettiva (tramite sostanze definite ‘vaccini’ ma che vaccini propriamente non sono) a morire «dei nostri rimedi» invece che «delle nostre malattie» (34) e anche a imporre questa stoltezza a quanti se ne vorrebbero salvaguardare. Cosa che accade anche perché «l’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale» (30), vale a dire che molti cittadini (italiani e non solo) intuendo il pericolo che vaccinarsi ha rappresentato hanno preteso che questo rischio – liberamente da loro assunto – fosse imposto a tutti gli altri cittadini mediante misure dispotiche, violente, discriminanti. Come si vede, non c’è stata alcuna «generosità», «senso civico», «attenzione ai fragili» ma c’è stato un misto di sentimenti negativi quali l’aggressività verso il non omologato, l’invidia, il conformismo, il sadismo.

Rispetto a tali dismisure contemporanee, Cioran vede negli ‘antichi’, vale a dire nei Greci, un’altra differenza. Gli antichi sono infatti «sotto ogni aspetto più sani e più equilibrati di noi» (35); sono consapevoli dei limiti umani dati anche e specialmente dal nostro essere parte di un intero, del cosmo, dal fatto «che i nostri destini [sono] scritti negli astri, che non vi [sia] traccia di improvvisazione o di casualità nelle nostre gioie o nelle nostre sventure» (129).
Anche per cogliere ancora tanta sapienza «sempre a loro torniamo quando si tratta dell’arte di vivere, della quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno fatto perdere il segreto. Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un arretramento verso la salute» (38), verso la große Gesundheit, la grande salute della quale parla Nietzsche, la salute che rifiuta il compiacimento cristiano nel dolore, il quale «sarebbe parso un’aberrazione agli Antichi, che non ammettevano voluttà superiore a quella di non soffrire. […] Avvezzi a un Salvatore stravolto, stremato, contratto nella smorfia del dolore, non siamo adatti ad apprezzare la disinvoltura degli dèi antichi o l’inestinguibile sorriso di un Buddha immerso in una beatitudine vegetale» (93-94).

La caduta gnostica nel tempo è dunque anche la caduta nella «tristezza», che costituisce il «principale ostacolo al nostro equilibrio» (62). Essere come gli antichi, diventare come l’inorganico, come la roccia, le stelle, le acque. Questo è l’invito esistenziale che la differenza ontologica di Cioran può offrire a chi abbia finalmente dismesso un primato dell’umano nell’essere che è formula ridicola anche solo a scriverla.

Asini

EO
di Jerzy Skolimowski
Polonia, Italia, 2022
Con: Sandra Drzymalska (Kasandra), Isabelle Huppert (la signora), Lorenzo Zuzolo (Vito)
Musica di Pawel Mykietyn
Trailer del film

Contro la tesi di Thomas Nagel per la quale solo un pipistrello può sapere what is it like to be a bat, e dunque contro l’impossibilità di un’empatia interspecifica, questo film di Skolimowski tenta di vedere e di restituire il mondo come lo vede un asino, come lo percepisce, come lo sente.
Eo (questo il suo nome, che in inglese è onomatopeico del verso degli asini) viene sottratto a un circo e a Kasandra, la sua amorevolissima istruttrice e amica, che non si dà pace per tale separazione. Neanche Eo sembra rassegnarsi; le vicende dei due si intersecano un paio di volte ma poi l’asino prende la sua strada, la sua fatica di esistere tra allevamenti di cavalli, squadre di calcio che lo eleggono a propria mascotte, teppisti che quasi lo uccidono, cliniche veterinarie, lager di animali da pelliccia, macelli. Ma non soltanto. Anche boschi, acque, lupi, gufi, colline, cieli. Tutto percepito con colori inconsueti, con inquadrature tagliate, con percezioni sfumate e a noi confuse, con la musica inquietante, con suoni assordanti ed eccessivi o inverosimili silenzi. E questo allo scopo di entrare e stare nella mente di un asino, nella mente di un animale non umano, sino a un momento culmine e sconcertante nel quale la mente di Eo sembra ripercorrere il viaggio di David verso Giove e l’infinito in 2001. Odissea nello spazio.
Un viaggio nella vita e nel tempo, quello di Eo, dal quale in ogni caso gli esseri umani escono demoliti nella loro micidiale frenesia di dominio e di ferocia.
EO è chiaramente ispirato anche a Au hasard Balthazar (1966). Come nel capolavoro di Robert Bresson, il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto. E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
La profondità metafisica e teologica di Au hasard Balthazar è qui forse soltanto accennata nella figura del giovane e bizzarro prete che porta con sé Eo in una villa che non si sa se essere sua o di una enigmatica signora. Eo si allontana anche da questo luogo, verso la sua necessità, verso l’ἀνάγκη di tutti.

Vai alla barra degli strumenti