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Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Una cosmologia sacra

Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù
In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca
Mudec, Museo delle Culture – Milano
A cura di Ulla Holmquist e Carole Fraresso
Sino al 19 febbraio 2023

Dal XIII secolo a.e.v sino al 1526 dell’e.v. alcune raffinate e potenti civiltà si susseguirono negli aspri e ricchi territori delle Ande, dalle vette che arrivano a 6000 metri sino alle pianure e alla costa. Al culmine della sua espansione l’impero Inca si estendeva per migliaia di chilometri, dal Perù all’Ecuador occidentale, alla Bolivia, al Cile, all’Argentina centro-occidentale. Lo abitavano 12 milioni di persone, di molteplici e disparati gruppi etnici.
Furono uomini e comunità in profondo accordo con i due elementi che soli possono dare senso alla parzialità umana: gli altri animali e gli dèi. Per i popoli delle Ande tutti gli enti si distribuiscono nei tre mondi che formano l’intero.
Nel mondo superiore, al di là delle cime e delle nuvole, abitano gli dèi.
Gli umani stanno in un qui e ora continuamente cangiante e per sopravvivere devono impetrare l’aiuto divino trasformando continuamente se stessi e gli altri animali in elementi sacri. Cosa che soltanto il sacrificio, solo la morte, può realizzare. I riti, i combattimenti, le feste, i funerali, hanno dunque sempre al centro il sacrificio umano, compreso quello di guerrieri – e quindi membri dei gruppi dominanti – che si sfidano e i cui perdenti si offrono senza incertezze alla morte rituale. L’obiettivo e il senso di tutto questo è infatti che la Terra continui a vivere, con le sue piogge e la sua fecondità, e che il Sole continui a splendere. Anche la morte degli altri animali non avviene nelle anonime e terribili catene di montaggio dei macelli contemporanei ma dentro la gloria della Terra e del Sole.
Nel mondo inferiore abitano gli avi, i morti, coloro che rimangono sempre presenti sia con i loro corpi disseccati e non putrefatti sia dentro la memoria dei vivi.
Si tratta dunque di un universo verticale, il cui strumento sono i gradini – gradini di ogni forma, natura e simbolo – che li attraversano e li uniscono.
Queste civiltà sono animaliste, in un senso assai più profondo rispetto all’attuale significato di tale parola. Gli altri animali infatti esistono, vivono e respirano in totale continuità con l’animale umano. Gli sciamani, incaricati di viaggiare tra la terra, gli inferi e il cielo, diventano felini, giaguari, cervi, serpenti.

«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…) […]. Tutti gli animali, assieme ad altri componenti del cosmo, sono delle persone, intensivamente e virtualmente, perché ognuno di loro può rivelarsi essere (o trasformarsi in) una persona»
(Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale,  trad. di M. Galzigna e L. Liberale, ombre corte, Verona 2017, pp. 43-44).

Questo vortice antropologico ha la sua espressione anche nel moltiplicarsi delle forme che decorano i manufatti, gli oggetti, le produzioni degli Inca: spirali, geometrie, interi cicli narrativi dentro un vaso. Cicli che hanno come protagonista Ai Apaec, l’uomo-dio il cui destino è simile a quello di Eracle.

(Foto di Enrico Moncado)

E soprattutto hanno come protagonisti gli dèi, i quali si uniscono agli umani, come fa la madre terra fecondata in un coito appassionato, e mostrano la vagina, il pene, gli organi e le forze dalle quali sgorgano i viventi e i loro simboli.

(Foto di Enrico Moncado)

Animisti ed eraclitei, questi umani esprimono una forza arcaica, ancestrale, splendente e crudele, fatta di iniziazioni assai dure, che escludono gli inadatti alla vita. Esattamente l’opposto dell’occidente contemporaneo, declinante e tremebondo, che cerca di risparmiare ogni anche pur piccolo ‘trauma’ ai suoi cuccioli, rendendoli in questo modo delle nullità inadatte al travaglio del negativo. E, a proposito di dissoluzioni, pur con tutta la loro violenza queste civiltà non poterono resistere alla ferocia dei cristiani, una delle più implacabili che la storia umana abbia visto.
Come emblema e sineddoche di tanto pensiero sta la città sacra di Machu Picchu (1450-1572), che si vede in apertura di questo testo.
Antropologia? No, cosmologia. Il Sole, la Via Lattea, il Sacro.

Asini

EO
di Jerzy Skolimowski
Polonia, Italia, 2022
Con: Sandra Drzymalska (Kasandra), Isabelle Huppert (la signora), Lorenzo Zuzolo (Vito)
Musica di Pawel Mykietyn
Trailer del film

Contro la tesi di Thomas Nagel per la quale solo un pipistrello può sapere what is it like to be a bat, e dunque contro l’impossibilità di un’empatia interspecifica, questo film di Skolimowski tenta di vedere e di restituire il mondo come lo vede un asino, come lo percepisce, come lo sente.
Eo (questo il suo nome, che in inglese è onomatopeico del verso degli asini) viene sottratto a un circo e a Kasandra, la sua amorevolissima istruttrice e amica, che non si dà pace per tale separazione. Neanche Eo sembra rassegnarsi; le vicende dei due si intersecano un paio di volte ma poi l’asino prende la sua strada, la sua fatica di esistere tra allevamenti di cavalli, squadre di calcio che lo eleggono a propria mascotte, teppisti che quasi lo uccidono, cliniche veterinarie, lager di animali da pelliccia, macelli. Ma non soltanto. Anche boschi, acque, lupi, gufi, colline, cieli. Tutto percepito con colori inconsueti, con inquadrature tagliate, con percezioni sfumate e a noi confuse, con la musica inquietante, con suoni assordanti ed eccessivi o inverosimili silenzi. E questo allo scopo di entrare e stare nella mente di un asino, nella mente di un animale non umano, sino a un momento culmine e sconcertante nel quale la mente di Eo sembra ripercorrere il viaggio di David verso Giove e l’infinito in 2001. Odissea nello spazio.
Un viaggio nella vita e nel tempo, quello di Eo, dal quale in ogni caso gli esseri umani escono demoliti nella loro micidiale frenesia di dominio e di ferocia.
EO è chiaramente ispirato anche a Au hasard Balthazar (1966). Come nel capolavoro di Robert Bresson, il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto. E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
La profondità metafisica e teologica di Au hasard Balthazar è qui forse soltanto accennata nella figura del giovane e bizzarro prete che porta con sé Eo in una villa che non si sa se essere sua o di una enigmatica signora. Eo si allontana anche da questo luogo, verso la sua necessità, verso l’ἀνάγκη di tutti.

Culture animali

Recensione a:
Carl Safina
Animali non umani
Famiglia, bellezza e pace nelle culture animali
Adelphi, 2022
Pagine 565
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
vol. 13, n. 2/2022
pagine 173-174

Dati, fatti, eventi, situazioni, comportamenti mostrano che è arrivato il tempo nel quale la riflessione filosofica, e più in generale un approccio scientifico al mondo, abbandonino antichi e potenti dualismi, ormai falsificati. Tra questi, uno dei più importanti e pervasivi è il dualismo di cultura e natura, di culture nurture, di acquisito e di innato, di apprendimento e ‘istinto’.
Questo libro di Carl Safina scioglie il nodo naturacultura mediante l’osservazione e l’analisi sul campo di alcune strutture viventi molto diverse tra di loro: i capodogli, i pappagalli ara dell’Amazzonia, gli scimpanzé dell’Uganda. Sul campo poiché soltanto se studiati nel loro ambiente, nelle loro condizioni naturali e culturali, le creature viventi possono essere comprese nella loro struttura, nei comportamenti individuali e collettivi, nella complessità e nell’evoluzione.
In tutti e tre i casi osservati emerge con grande chiarezza l’esistenza, la ricchezza, la differenziazione e la varietà di culture animali caratterizzate da numerosi elementi che da sempre vengono pensati come esclusivi della specie umana ma che non lo sono affatto.
In modi tra di loro diversi anche all’interno dei gruppi e della comunità nelle quali si dividono, capodogli, are e scimpanzé costruiscono e modificano continuamente acquisizioni naturali e culturali quali i linguaggi, gli strumenti, le strutture estetiche, l’apprendimento, la comunicazione, la trasmissione intergenerazionale.
Nel mondo animale, umani compresi, sono all’opera molte intelligenze; esistono una varietà di strutture mentali che hanno in comune il senso del tempo, della memoria e del futuro, tanto che «oggi alcuni psicologi e altri scienziati si stanno rendendo conto, sistematicamente e con prove, che noi condividiamo il mondo con menti di altro tipo». Aver visto in questa straordinaria ricchezza di forme insieme ‘naturali’ e ‘culturali’ soltanto delle risorse, delle materie prime, degli oggetti – ciò che Heidegger definisce come Bestand, un fondo al quale attingere per le umane esigenze – produce conseguenze catastrofiche per tutto il pianeta. Sterminando le balene, ad esempio, si impoverisce l’oceano e quindi si pongono le condizioni per la decadenza dell’intera biosfera. Il provincialismo antropocentrico ha avuto e ha come conseguenza «qualcosa di spaventoso e tremendo, e cioè che la specie umana si è resa incompatibile con il resto della Vita sulla Terra» poiché «più gli uomini riempiono il mondo, più lo svuotano».
Le culture degli altri animali, il loro costruire strumenti, le attività educative che sanno mettere in atto, la consapevolezza del tempo e della morte, confermano la chiara continuità tra la specie umana e le altre, anche e soprattutto nell’ambito che definiamo cultura.

[Ricordo che, per quanto possa essere più o meno ampio, ciò che scrivo in queste pagine è sempre soltanto un abstract delle mie pubblicazioni, per leggere le quali basta visitare i link indicati sopra: i pdf o le pagine delle riviste nelle quali i testi appaiono]

Ethoanthropology

Towards an ethoanthropology  
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 13 – Numero 1/2022
Pagine 72-78

Indice
1 Paradigms
2 Ethoanthropology
3 Natureculture
4 Animal Experimentation
5 Biotechnology

Abstract
In this paper, I propose we replace the anthropocentric paradigm with an ethoanthropological one that can account for the fact that the human being is just a part of the world and of “nature”. Theoretical reflection and recent findings in the natural sciences confirm that ancient anthropocentric dualisms – the ancient body/soul, and res extensa/res cogitans divide – are obsolete. Here I argue that the human being is a bodymind continuum (an embodied mind), comprising action, experience, nurture, and culture. To develop a broader and at the same time more specific science of man is possible only on the condition that we give up the anthropocentric view and replace it with an ethoanthropology. This would also provide compelling reasons to forego harmful experimentation and exploitation of other animal species, including animal biotechnology.

Per una etoantropologia – In questo articolo si avanza la proposta di rimpiazzare il paradigma antropocentrico con un paradigma etoantropologico volto a comprendere l’essere umano all’interno del mondo e all’interno della “natura”. La riflessione teorica e le scienze naturali confermano che l’antico dualismo antropocentrico – tra corpo e mente, tra res extensa e res cogitans – è semplicemente obsoleto. L’essere umano è un continuum di corpomente (una mente incarnata), azione, esperienza, educazione e cultura. Sviluppare una scienza dell’uomo che sia più ampia e al contempo più precisa è possibile a patto di superare il provincialismo antropocentrico e di sostituirlo con una etoantropologia. Questa potrebbe fornirci delle ragioni forti per rinunciare alle pratiche più distruttive operate sugli animali, comprese quelle biotecnologiche.

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Vorrei aggiungere qualcosa ai dai bibliografici di questo saggio. Vorrei dare qualche informazione ulteriore che possa essere utile soprattutto ai miei allievi e in generale a dei giovani studiosi. Un’informazione che li aiuti anche a non scoraggiarsi quando ricevono dei rifiuti alle loro proposte di pubblicazione da parte delle riviste scientifiche. Anche la ormai consueta peer review, ‘valutazione tra pari’, non sfugge infatti agli umani, troppo umani sentimenti e comportamenti.
Questo saggio, dedicato a un tema centrale della mia ricerca, mi era stato in realtà chiesto da una collega come contributo a un volume collettaneo. Dopo qualche tempo dall’invio ricevo non da lei ma da una sua collaboratrice il giudizio di un reviewer che bocciava decisamente il testo. Può capitare, naturalmente, ma in questo caso la procedura era stata scorretta.
In primo luogo perché si trattava di un solo revisore, quando la regola ne prevede due.
In secondo luogo, e soprattutto, si trattava di un revisore che probabilmente aveva capito chi fosse l’autore, verso il quale evidentemente non nutre molta simpatia; aveva quindi approfittato dell’occasione non per redigere un giudizio negativo ma per insultare il testo (e quindi il suo autore) con un linguaggio e delle modalità che la pratica di valutazione tra pari esclude.
Poco male se non per chi mette in atto simili comportamenti, non certo per me. Proposi infatti il testo a una delle più prestigiose riviste internazionali di filosofia, i cui due revisori diedero giudizi positivi: uno con un apprezzamento incondizionato, scrivendo tra l’altro: «The author expresses with mastery and competence the multiple and complex articulations of the topic of the paper. […] The essay is an excellent reflection on the issues highlighted above, written in clear and engaging language at the same time»; il secondo revisore con un giudizio nel quale mi dava dei consigli su come chiarire e migliorare due passaggi e argomentazioni del testo: «The manuscript can be considered as a position paper expressing a strong and heartfelt accusation against anthropocentrism. Even if it does not have the classic structure of a regular article, the proposed arguments are compelling and constitute at least a challenge for our life style and for a number of beliefs that we typically take for granted.
For this reason, I consider this work worth publishing.
Yet, I strongly suggest to clarify to passages concerning the notion of vivisection.
[…] In any case the relationship between animal and environment exploitation should be expressed more clearly».
Ho naturalmente modificato i brani e integrato le questioni segnalate da questo revisore, che quindi ringrazio per avermi aiutato a migliorare il testo. Come ringrazio il primo per il giudizio totalmente positivo da lui formulato.
Per quanto riguarda il poveretto che aveva concluso la sua valutazione con queste parole (comunque tra le più gentili rispetto al resto): «Il paper non presenta alcuna innovativa posizione nel dibattito sull’argomento; tenta di farlo, ma in maniera pressoché pamphlettistica, che poco ha del paper scientifico», gli auguro di crescere scientificamente e umanamente.

[In questo numero della RiFP è uscito anche un ampio studio del mio allievo e collaboratore Andrea Pace Giannotta, dal titolo Corpo funzionale e corpo senziente. La tesi forte del carattere incarnato della fenomenologia (pp. 41-56)].

 

Davide Miccione su Animalia

Davide Miccione
Recensione a Animalia
 in Phronesis. Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche
Anno II seconda serie, numero 5, maggio 2022
Pagine 91-95

«Il tema di Animalia non è però calcato sull’urgenza del momento come Disvelamento ma su un’urgenza, per così dire, eterna, cioè quella che ha il Sapiens di riuscire a capirsi e vedersi in quanto uomo. Un volume di antropologia filosofica verrebbe da dire se non fosse che è proprio quest’ultima che viene scardinata e resa impossibile, almeno nelle forme in cui siamo abituati a pensarla. Biuso parte dal modo in cui siamo abituati e pensare l’uomo e in pochi passaggi rende questa modalità inattingibile.
[…]
Difficile non scorgere il ridicolo di una categorizzazione binaria che mette il lombrico e il bonobo, che in nulla si somigliano, insieme nella identità animale, e noi che tanto al cugino peloso somigliamo, da soli nell’altra. Animale diventa così solo un “controtermine” atto a scopi di separazione, di sfruttamento e di guerra.
[…]
Dunque dall’eccezionalismo antropocentrico che ci divide dall’animalità, discendono altre separazioni, altri dualismi, altre contrapposizioni che Biuso perlustra nel libro e a cui contrappone una attenta cucitura della nostra realtà categoriale. Tentato dal monismo (come le ombre di Spinoza e Schopenhauer che si intravedono alle sue spalle ci suggeriscono) Biuso non vi cede mai. Alla casacca della totalità preferisce un attento lavoro sartoriale che tenga conto dei tessuti di provenienza. La stessa scelta del termine “corpomente” per indicare quegli uomini che noi siamo o “naturacultura” per delineare una lettura del rapporto tra innato e acquisito meno rigida, rivela questa passione per una conciliazione che superi le differenze ma non le anneghi».

Macigni

Dune
di Denis Villeneuve
USA, 2021
Con: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (Il duca Leto Atreides), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen), Charlotte Rampling (La reverenda madre Mohiam), Chen Chang (il Dottor Wellington Yueh), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), Zendaya (Chani)
Trailer del film

Le aride colline libanesi, il cerchio del tempo, le potenti strutture che si sbriciolano e il pesante rumore dell’acciaio erano alcuni degli elementi di precedenti film di Denis Villeneuve.
Essi convergono in Dune e si aprono alla forma che sempre sottende l’opera di questo regista: il mito. Che qui trova una vertiginosa condensazione di modi e narrazioni. La casa regnante si chiama Atridi; il giovane protagonista appare spesso una sorta di Amleto; la forza fisica si coniuga a possanza interiore; gli animali non umani vengono continuamente evocati: dai topi ai mezzi di trasporto che sono chiaramente delle libellule  meccaniche, da piccoli insetti artificiali e velenosi agli enormi, enigmatici e inquietanti vermi del deserto che scavano le dune al suono ritmato dei corpi o di altre macchine; le potenze malvagie gorgogliano da liquidi e liquami e si sollevano nello spazio in tutto il loro orrore, come ben sanno le più arcaiche fiabe di ogni epoca; le potenze complici dell’Imperatore hanno un nome simile a quello dei collaboratori del funesto Demiurgo gnostico: Harkonnen; le antiche Madri continuano a tessere il destino di ogni cosa.
E su tutto il duplice mito dal quale è nata la letteratura in Europa: la guerra (Iliade) e il viaggio, il ritorno (Odissea). In questa sorta di antologia dei poemi fondativi, i pianeti si moltiplicano e gli umani -o altre entità antropomorfe e consapevoli- appaiono sempre più insignificanti e schiacciati dalla forza immensa degli spazi e delle macchine.
Sono queste ultime, le macchine, l’elemento peculiare di Dune, ancor più del deserto immane, ospitale e ostile. Macchine gigantesche, ciclopiche e massicce, che tuttavia si alzano in volo, sfrecciano nello spazio, poggiano lievi sulle superfici. Autentici palazzi galattici azionati da leve e strutture del tutto e pesantemente meccaniche, che non possiedono niente di virtuale, nulla di algoritmico, non sono dei software e sono composti invece di pietra, di cemento, di acciaio. O di qualcosa che alla pietra, al cemento e all’acciaio rimanda.
È questa realtà solida, imponente e poderosa che permette non soltanto alle coscienze di essere  composte «della materia di cui son fatti i sogni» (Shakespeare, La Tempesta) ma anche ai sogni, come Dune, di essere composti della materia di cui son fatti i macigni, della materia delle rocce, del fuoco e delle galassie. Di materia è intessuta la realtà e non di formule interiori e digitali nelle quali l’umanità vagheggia e anela il proprio sopravvivere. Tranne poi, e come sempre, morire.

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