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Imperialismo e ultraliberismo

Imperialismo e ultraliberismo

Per quello che possono valere le cronologie, bisogna pur dire che il 2016 è stato un anno sorprendente: «Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, il testa a testa delle presidenziali austriache, l’uscita di scena pressoché in contemporanea di Sarkozy e Hollande, il rotondo risultato del referendum costituzionale italiano con la sconfitta del campione della Commissione europea, delle redazioni giornalistiche e degli ambienti economico-finanziari, e alla fine persino il rovescio delle ‘rivoluzioni arabe’ con la riconquista di Aleppo ad opera delle truppe lealiste del governo di Assad» (M.Tarchi in Diorama letterario 334, p. 1).
Eventi che mostrano ancora una volta la necessità di elaborare categorie politiche e metapolitiche diverse rispetto all’obsoleto schema destra/sinistra nato con la Rivoluzione Francese e ormai inadeguato a comprendere un mondo profondamente diverso rispetto a quello che si è chiuso nel 1989.
Il concetto di populismo, ad esempio, è utilizzato dai media e dai politici in un modo troppo generico, polemicamente connotato e parziale. Più esatta è la definizione scientifica che ne dà Tarchi nel suo Italia populista: «La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione» (Il Mulino, 2015, p. 77).
Due dei protagonisti dello scorso anno sono stati Trump e Hollande. Il primo è in entrata, l’altro in uscita. Due personaggi emblematici, la cui azione politica passata e futura è stata e sarà analizzata nella sua varietà e complessità. Intanto, si può subito dire che per Trump « ‘America first’ vuol dire anche: l’Europa ben lontana dietro di noi! Dopo decenni di interventismo a trecentosessanta gradi e di imperialismo neocon, il ritorno ad un certo isolazionismo sarebbe una buona cosa, che può però avere il suo risvolto. Non dimentichiamo che nessun governo americano, interventista o isolazionista, è mai stato filo-europeo!» (A.de Benoist, p. 6).
Per quanto riguarda Hollande, Eduardo Zarelli si sofferma sul significato della decisione del presidente francese di far sfilare, lo scorso 14 luglio, delle truppe del Mali sugli Champs Elysées. La motivazione più importante di questo evento sta nel fatto che «il Mali è il terzo paese al mondo per i giacimenti auriferi e conta anche giacimenti di petrolio, di gas e soprattutto di uranio. In un periodo di crisi mondiale epocale, il governo francese voleva assicurarsi riserve significative di materie prime, in modo da riuscire ad alimentare le sue 60 centrali nucleari totalmente dipendenti dall’uranio africano, e nel contempo rimpinguare le riserve auree di Stato» (p. 15). Come si vede, si tratta di una politica classicamente imperialista, «che risponde alla strategia geopolitica di mantenere l’intero continente sotto il controllo militare e gli interessi economici delle grandi democrazie, che tornano in Africa, dopo le tragedie ottocentesche e novecentesche, con il casco coloniale dipinto con i colori dell’arcobaleno della pace. […] L’universalismo ugualitario prolunga una tendenza secolare che, nelle forme più diverse e in nome degli imperativi più contraddittori (propagazione della vera fede, superiorità della razza bianca, esportazione mondiale dei miti del progresso e dello sviluppo) non ha mai cessato di praticare la conversione, cercando di ridurre ovunque la diversità e ricondurre l’altro al medesimo riferimento: la modernità occidentale» (p. 16).
Più in generale, si tratta degli effetti di ciò che Paolo Borgognone definisce il «radicalismo liberale» sostenuto da «una sinistra mondialista, officiante l’ideologia dei diritti umani e la dittatura del ‘politicamente corretto’, tanto votata unilateralmente ai diritti civili quanto dimentica di quelli sociali; così ‘tollerante’ e libertaria da sostenere l’irreversibile uniformità dell’occidentalizzazione del mondo a colpi di ‘bombardamenti etici’ e ‘guerre umanitarie’ in ogni dove, perfetta interprete del conformismo dei nostri tempi, di quelle ‘passioni tristi’ snob e radical chic che ben vestono la misoginia morale del perbenismo. Il progressismo non solo è perfettamente calzante con il sistema liberal-capitalista, ma è anche la forza politico-culturale più adatta alla gestione delle dinamiche di una modernità che, vocandosi apolide, diventa globale e senza frontiere» (così Zarelli recensendo di Borgognone L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Zambon, Frankfurt am Main/Jesolo 2016, pp. 33-34).
In tutto questo è fondamentale strumento l’informazione, che anche nelle ‘democrazie avanzate’ è asservita ai grandi gruppi finanziari ed economici, i quali orientano soprattutto le emozioni, dando enfasi a immagini, dichiarazioni, eventi in relazione non al loro contenuto ma al mettere in buona o cattiva luce determinati soggetti. Un esempio evidente di tali dinamiche sta nella dichiarazione che il Segretario di stato del secondo mandato Clinton -Madeleine Albright- fece alla Cbs a proposito del mezzo milione di bambini morti durante la guerra in Iraq. La signora rispose in questo modo: «So benissimo che si è trattato di una scelta difficilissima, ma noi siamo convinti che sia stata una scelta perfettamente legittima». Zarelli si chiede opportunamente «che cosa accadrebbe nel mainstream mondiale se una tale risposta venisse data dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin, dal presidente cinese Xi o da quello della Repubblica islamica dell’Iran, Hassan Rouhani. Non verrebbero immediatamente additati come satrapi sanguinari?» (p. 35).
Un comunista che si oppone alla svendita culturale della sua ideologia è il filosofo Slavoj Žižek, il quale in La nuova lotta di classe  (Ponte alle Grazie, 2016) sostiene la necessità che la sinistra antagonista si renda conto delle molte trappole culturali e politiche che l’ultraliberismo dissemina nei confronti proprio di chi si batte per un diverso sistema di vita individuale e collettiva. Tra queste, Žižek annovera il ‘buonismo’ che la trasforma in una «innocua sinistra del capitale, in inoffensiva sinistra borghese perfettamente funzionale alla riproduzione dei meccanismi del capitalismo globale che in teoria dice di voler combattere» (ricordato da G. Giaccio a p. 28). Sono tesi molto simili a quelle di Cornelius Castoriadis, Jean-Claude Michéa, Michel Onfray.
Esiste dunque una sinistra capace ancora di pensare e non soltanto di commuoversi.

7 commenti

  • agbiuso

    Settembre 24, 2023

    Segnalo una lucida e dolorosa riflessione di Marta Mancini sulla violenza delle istituzioni e della finanza.
    Il testo è stato pubblicato su Aldous, 23.9.2023
    Si scrive mercato ma si legge violenza

    Questo un brano:
    “Dopo Genova [2001] la politica non è stata più attingibile per i comuni cittadini che adesso si chiamano consumatori, risorse (umane?), elettori, follower, popolo, gente, massa. Dietro questa trasformazione nominalistica, si sono persi le persone, i militanti, i giovani che se possono se ne vanno, gli intellettuali di tempra. Non hanno smesso di pensare e di lottare ma si muovono in ordine sparso, tollerati strumentalmente quando non derisi dal pensiero unico e di fatto privati della forza necessaria a scuotere le coscienze. Rafforzata da quella mediatica, la violenza fisica ha spezzato il legame tra il pensiero e la fiducia di poter agire collettivamente in opposizione all’esistente.

    Qualcosa, tuttavia, dovrebbe stridere nell’opinione pubblica se nel 2001 i manifestanti pacifici che chiedevano giustizia sociale sono stati massacrati mentre, a distanza di oltre vent’anni, nei santuari del neoliberismo si ascoltano e si applaudono le denunce di facciata del “purché sia green” e scorrono lacrime ministeriali questa volta per le turbe giovanili di ecoansia, per dirne una. Forse la coscienza di ciò che sta accadendo non è del tutto chiara perché l’origine del male è risalente e pervade silenziosamente gli interstizi della società”.

  • agbiuso

    Giugno 23, 2018

    L’analisi della questione dazi formulata da indipendenza conferma le opinioni espresse tempo fa da Yanis Varoufakis.

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    Fonte: Full transcript of the Yanis Varoufakis | Noam Chomsky NYPL discussion

    «Well, let me say that they never looked at those criteria. These were bogus criteria. Greece didn’t meet those criteria. Italy didn’t meet those criteria. Far from it. The criterion was 60 percent of debt over GDP as a maximum. Italy had 100 percent. But of course the whole point of creating the Eurozone was in order to stop Fiat producing cars that would remain competitive vis-à-vis Volkswagens through devaluation of the lira. So they needed Italy, so they violated their own criteria. They just ignored them, and they brought Italy, Greece in. And you know how Greece got in? We had some smart people in the finance ministry, in the central bank of Greece, and they copied exactly the same tricks that they used to let Italy in. They said, “Well, we know what you’ve been up to. So if you let Italy in, we were doing the same tricks, we will present the same data, so either you have to kick the Italians out or allow us in as well.” So this is how we got caught up.
    You’ve got to understand that it’s a very hypocritical concept, the whole thing, the whole process, so it was never a question of integration, really. It was a question of expanding the limits of predatory financialization. What did Greece have to offer the Eurozone? Can I tell what we had? We had no oil, we had really—we were not a traditional colony that had natural resources to—what we brought to the Eurozone was a population with minimal debt and a lot of equity. Because Greeks loathe debt. My parents’ generation didn’t have credit cards, personal loans, mortgages. They worked for thirty years, put some money aside, borrowed some money from an aunt or an uncle and bought a house, okay? So we were a dream come true for German and French bankers. We had a Protestant almost ethic in terms of debt, and there was very little debt. And a capacity, once extended, once the Deutsche Mark was extended to Greece, okay, we had the capacity to borrow and borrow and borrow on the basis of very sound collateral.
    So this edifice was never designed to sustain an economic crisis. You know which were the two countries that violated the Maastricht criteria first, before anybody else? Germany and France. So these rules were written not to be respected, but were written to be used as a club by which to beat the weak and the ones who dare speak out against the irrationality of the system».

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    Dentro la guerra dei dazi USA-Unione Europea
    23 giugno 2018
    associazioneindipendenza

    Nuovo capitolo della confliggenza tra Stati Uniti e Unione Europea a trazione tedesca, stavolta –ancora una volta– per via commerciale.
    A fronte dell’entrata in vigore, ieri, dei dazi applicati dall’Unione Europea (UE) sulle importazioni di prodotti statunitensi (in risposta all’aumento, ai primi di giugno, delle tariffe imposte dalla Casa Bianca sulle importazioni dall’Europa di acciaio e alluminio), Trump ha subito minacciato dazi del 20% sull’importazione negli USA di auto europee. Come per l’acciaio e l’alluminio, si tratterebbe di una misura che colpirebbe soprattutto la Germania, nella fattispecie l’industria automobilistica tedesca, molto presente con i suoi prodotti negli States.

    Rispetto all’amministrazione Obama che le ha avviate, Trump sta proseguendo le ostilità (diversamente militari) in modo deciso. Si tratta di un conflitto politico a tutto campo e non di un occasionale contenzioso commerciale con Paesi (Cina, Giappone, Canada, Germania, Francia) in sistematico avanzo commerciale con gli Stati Uniti.
    Sul continente europeo è evidente il tentativo di riaffermazione egemonica statunitense. Il sistema UE-euro (una costruzione USA dispiegata pochissimi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale), pensato e costruito per ancorare i Paesi del continente al proprio carro, ha avuto una decisa accelerazione con lo scioglimento dell’URSS (1991) per volontà della Casa Bianca e, in scia, dell’Eliseo. Si è pensato di ingabbiare la rinata potenza germanica nell’Unione Europea e per allettarne l’ingresso le sono state consentite deroghe significative ai vincoli dettati per gli ‘altri’ e le sono stati prospettati i vantaggi commerciali che avrebbe avuto verso Paesi concorrenti, in primis l’Italia, con la moneta unica ed il correlato ed ispirante impianto unionistico europeo.
    La rendita di posizione germanica non ha portato all’evoluzione federalista (di matrice spinelliana, per semplificare) dell’Unione Europea, che era e rimane la prospettiva gradita e perseguita a Washington, ma si è consolidata attraverso il confederalismo europeo che divarica i vantaggi per la Germania (e Paesi satelliti) a detrimento dei Paesi del Sud. Oggi la potenza economica e commerciale, ma ancora non militare, tedesca è per gli Stati Uniti il ‘nemico principale’ in Europa. La guerra costruita, fomentata, sostenuta dall’amministrazione Obama in Ucraina (2014) è servita come risposta alla crisi indotta tedesca in Grecia (colpirne uno, per educare gli altri Stati d’Europa) e anche –e ancora– per ‘contenere’ la correlata spinta verso est della Germania, direzione Mosca. Ma non basta. Ora, per le classi dominanti degli Stati Uniti si tratta di ridimensionare la potenza tedesca, certo in ascesa come potenza regionale ma con punti deboli al suo stesso interno.

    Al di là dell’accelerazione (rispetto alla precedente amministrazione della Casa Bianca) di Trump è evidente che la costruzione a stelle e strisce dell’Europa può non essere più conveniente nella forma pluridecennale che abbiamo conosciuto dal Piano Marshall/NATO attraverso la Ceca, l’Euratom, la fallita CED (Comunità Europea di Difesa), la CEE/MEC, sino all’attuale Unione Europea.
    Il bilateralismo trumpiano auspicato e perseguito con i singoli Paesi passa, nel quadrante ‘europeo’, per la disarticolazione della UE confederale a trazione tedesca.
    In questo scenario sono da leggere, tra l’altro, la nascita del governo Conte, le ‘aperture’ di Trump all’Italia ed anche il configurarsi di certo sedicente ‘sovranismo’ che o guarda sfacciatamente a Trump invocandone (in nome degli storici ‘legami’ transatlantici) l’aiuto/intervento contro la Germania, o minimizza il ruolo degli Stati Uniti nell’indirizzo politico d’ultima istanza dell’Italia come da svariati decenni a questa parte.
    In tale scenario, dopo la rottura di Trump al G7 dell’8-9 giugno in Canada, sarà da osservare con attenzione quanto accadrà al vertice NATO dell’11-12 luglio a Bruxelles.

    Per “Indipendenza” è un punto fermo: nella confliggenza USA/Germania, tra l’incudine ed il martello a gestione alternata, la prospettiva credibile della rivendicazione della sovranità italiana e di un progetto di nuova società passa per le vie dell’indipendenza, del non allineamento, dell’internazionalismo solidale anche con Stati sovrani.
    Insomma, né succubi della Germania né servi degli USA!

  • diego

    Marzo 19, 2017

    Sì mi convince, il focalizzare il tema sul rapporto fra diritti civili e diritti sociali. In realtà è cruciale ribadire che esistono le vite concrete degli umani, intese anche nel tessuto socioculturale e di relazione. Dunque i diritti umani veri, che io preferisco definire le condizioni per una vita dignitosa, sono il vero obiettivo. Il problema squisitamente politico è quale soggetto organizzato puo’ gestire la situazione, e la questione è molto complicata, io non vedo nulla di adeguato.

  • Pasquale

    Marzo 18, 2017

    Ottimo Alberto, mi pare che ogni commento sia superfluo. Giro però questo tuo pensiero ad un piccolo think tank di cui mi pregio far parte qui a Lecco.

    • agbiuso

      Marzo 18, 2017

      Caro Pasquale, ti ringrazio molto della tua condivisione e della diffusione.

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