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Le Muse, il Tempo

Le Muse, il Tempo

Al guinzaglio del Tempo
di Vincenzo Crapio
Carthago, 2016
Pagine 85

Con che cosa gli umani lottano istante dopo istante? Con se stessi. Con il tempo che sono. Credono infatti di avere tempo e di consumarne una qualche quantità prestabilita. E invece tempo essi sono ‘ganz und gar, und Nichts ausserdem’ (Nietzsche), in tutto e per tutto, e nulla d’altro. Le Muse sono figlie di Μνημοσύνη e dunque parenti strette del Tempo. Esse hanno ispirato Vincenzo Crapio, è evidente. Gli hanno dettato un luccicare di «effimere faville» (Stella, p. 22), un esistere in «grumi di frammenti» (Il Tempo III, 31), uno stare «al guinzaglio del Tempo», che è densa metafora dal sapore proustiano: «Il Tempo, nostra creatura ma pure nostro tiranno, ci porta al suo guinzaglio, che è (o forse sembra) lento e lungo fin quando siamo giovani,  che poi diventa sempre più corto, teso e soffocante; sicché col passare degli anni, lui ci è sempre di più vicino e lo avvertiamo sempre più distintamente» (Nota dell’autore, 15).
crapio_al_guinzaglioUn antropocentrismo forse inevitabile sembra fare del Tempo un nemico irriducibile, inscalfibile e vincente e che però per esistere avrebbe bisogno di « esseri che hanno coscienza della durata» (Ibidem), fino ad attribuirgli un’ignoranza talmente ingenua da non sapere «che anche per lui verrà la morte / quando non ci sarà chi lo scongiuri» (Il Tempo II, 28). Così non è, naturalmente. E il poeta lo ammette quando dal Tempo si sente accudito (Deriva) e soprattutto quando riconosce che il Tempo è tutto, che esso porta «al laccio l’anima del mondo» (25), che nulla può fermare la sua essenza -«Dopo l’ultima morte, una mattina, / il Tempo avrà finito il lungo eccidio / e dentro il nulla bruto e ammutolito / un dio potrà soffiare nuovo idrogeno» (Big-Bang, 67)-, che esso scova tutti fin nei «più cupi rifugi» per riattaccare ogni cosa che esiste «alla catena / di attimi incolonnati e senza indugi» (La caccia, 57).
Ispirato dalle Muse, Crapio elabora un autentico canto, versi che sono musica non solo nella forma del sonetto ma anche in strutture più informali, nell’intimo riscontro delle sillabe. Un canto che finalmente lo concilia con quanto è accaduto e che accadrà. Nel Saluto finale gli sembra infatti non essere più un imbroglio «anche il niente che dura la rosa / o il sommesso parlarne in un foglio» (76).
Intima e interna musicalità che splende in Astanti dove vince ancora Ἀνάγκη, dove il Tempo è l’altro nome della Necessità: «Del tutto indifferente alle sue pene, / ai suoi contorcimenti d’agonia, / la rosa sovrastava la lucertola / il giardiniere la rosa che sfioriva / il cielo sempiterno il giardiniere. / Di tutti gli altri astanti, / ognuno a quel livello imprecisabile / che il Tempo concedeva al suo destino, / giustamente nessuno interveniva» (55). Giustamente. Δίκη.

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