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Mente & cervello 89 – Maggio 2012

Partiamo da una questione che ho più volte affrontato: il rapporto tra determinismo neuronale e libero arbitrio. Se ne parla in una delle recensioni di questo numero di Mente & cervello. Sempre più, infatti, diventa chiara l’importanza dei fattori cerebrali che rendono inevitabili dei comportamenti che di solito riteniamo liberi. Quando tali comportamenti sono criminali si pone il problema della punizione dei colpevoli di fronte alla loro “incapacità di intendere e di volere”. È così pervicace la psicologia della colpa da nascondere il fatto che la punizione dovrebbe essere relativa al danno che si produce -che è un fatto più oggettivo- e non, appunto, alla colpa che rappresenta invece un dato più ideologico, frutto di una specifica e relativa visione del mondo. Edipo era naturalmente innocente dal punto di vista della colpa -ignorava che Giocasta fosse sua madre e Laio fosse suo padre- ma viene giustamente punito per il danno arrecato alla città. Se non si abbandona il paradigma ebraico-cristiano della colpa il problema della punibilità giuridica diventerà sempre più spinoso e, di fatto, irrisolvibile.
Anche sulle questioni cosiddette “morali” dovremmo imparare da altre specie. È quanto suggeriscono i risultati della ricerca del primatologo Frans de Waal, il quale sostiene giustamente che non è corretto dire di una persona che si comporta male che ‘è un animale’, «e che dovremmo usare questa espressione per descrivere qualcuno che si comporta bene» (Intervista di D. Ovadia, p. 58). In generale questo etologo ha dimostrato che altre specie -quali gli scimpanzé, ma non solo- sono capaci di comportamenti pianificati e intelligenti, che nutrono un assai spiccato senso della giustizia distributiva, che provano «le stesse emozioni che proviamo noi, almeno quelli più vicini a noi. Ma anche i ratti, quando si stimolano con elettrodi le aree cerebrali che negli esseri umani sono attive in condizioni di paura, mostrano espressioni facciali congruenti con questo sentimento. I neuroscienziati non hanno alcun problema ad ammettere questo dato, mentre per alcuni psicologi comportamentisti è ancora un tabù. Per loro le emozioni animali non esistono. Eppure sappiamo che le femmine di babbuino emettono gemiti strazianti per settimane dopo la perdita della prole, e che nelle feci delle scimmie che hanno perso un congiunto si trovano elevati livelli di cortisolo, l’ormone dello stress» (60).
Non a caso i neuroni specchio sono stati individuati per la prima volta nei macachi. Neuroni che stanno alla base dell’empatia e della simpatia. Due atteggiamenti vicini ma anche diversi, come spiega con chiarezza J. Decety: «La nostra capacità di condividere e capire gli stati emotivi e affettivi degli altri -l’empatia- e di sentire una motivazione orientata al loro benessere -la simpatia- ha un ruolo essenziale nelle interazioni sociali» (26).
La prima persona verso la quale dovremmo nutrire simpatia siamo noi stessi. Quando non proviamo affetto nei nostri confronti -affetto e autostima che nulla hanno a che fare con narcisismi e arroganza- non possiamo voler davvero bene neppure agli altri. E infatti «alla base di una serie di malattie e disturbi mentali, quali la depressione e la schizofrenia, vi sarebbe un’unica causa: l’anedonia, l’incapacità di trarre soddisfazione da situazioni piacevoli» (E. Musumeci, 23). Esagerare il significato di eventi fastidiosi e negativi e non saper apprezzare quello che di buono -che spesso non è poco- ci accade costituisce una vera e propria patologia, fra le più gravi per le relazioni con noi stessi e con gli altri.
Un modo tra i più sicuri di volersi male è fumare. Il cervello in fumo -questo il titolo dell’articolo di Y. Yalachkov, J. Kaiser e M.J. Naumer- diventa incapace di pensare ad altro che alla sigaretta quando ne viene privato. La potenza della chimica, ché di molecole siamo fatti, è tale da diventare «schiavi della sostanza» (52) e da avere bisogno di lunghe e attente cure per uscirne, a condizione che si voglia davvero affrancarsi dalla nicotina, cosa che soltanto una piccola percentuale dei fumatori (in Italia nel 2011 solo il 9,6 %) è disposta a fare: «Il 77,5 per cento […] spiega infatti di non voler smettere perché ‘mi mancherebbe la compagnia delle sigarette’, il 66,8 per cento perché ‘penserei continuamente alle sigarette’ e il 65,5 per cento perché ‘vedrei persone o situazioni che mi farebbero riprendere a fumare’. Ma forse l’ammissione più rivelatrice è quella del 55,6 per cento di incalliti tabagisti che dichiara: ‘Senza le sigarette, mi sentirei perso’» (53).
Motivazioni chiaramente analoghe a quelle che fanno temere la perdita dell’oggetto d’amore, come si può facilmente dimostrare sostituendo al termine ‘sigarette’ un nome umano. Ma se amare altri umani e avere bisogno di loro è anche un’esperienza di pienezza e di scambio, la dipendenza dal tabacco è una penosa e pesante forma di schiavitù molecolare.
Tra le ricerche di cui si dà conto in questo numero ce n’è una davvero interessante e significativa. Sembra infatti, e la cosa è più che plausibile, «che dopo una breve interazione con una donna attraente gli uomini sperimentano un calo delle prestazioni mentali. Ma uno studio più recente suggerisce che questo deterioramento cognitivo si verifica anche quando gli uomini si limitano semplicemente ad anticipare un’interazione con una donna di cui non sanno molto»; in generale, più si cerca di fare una buona impressione più il cervello si affatica e ne risente: «Nel caso degli uomini, anche solo pensare di interagire con una donna sarebbe sufficiente ad annebbiare un po’ il cervello»  (D. Grewal, 102). Sesso debole quello maschile, decisamente.

3 commenti

  • agbiuso

    Maggio 25, 2012

    Caro Diego, ho letto anch’io questo libro trovandolo di grande interesse, condividendo alcuni dei contributi e meno altri.
    E’ un problema certamente complesso e fondamentale quello del libero arbitrio ma credo che sia risolvibile. E in questa soluzione il pensiero di Spinoza rimane secondo me fondamentale.
    Sul tema specifico delle conseguenze giuridiche del determinismo mi sembra significativo quanto si legge nell’Introduzione al volume (p. XVIII):
    «Oggi, tuttavia, molti ricercatori sono convinti che gli esseri umani si trovino sempre in una tale condizione di determinazione e di mancanza di autonomia. Lavazza e Sammicheli si domandano dunque se sia arrivato il momento di abbandonare completamente la concezione retributiva della pena, a favore di semplici misure di sicurezza per chi non abbiamo più ragione di definire reo, ma soltanto individuo socialmente pericoloso».

  • diegob

    Maggio 25, 2012

    in effetti, caro alberto, in un libro che ho letto di recente, siamo davvero liberi?, a cura di de caro, lavazza e sartori, fra gli altri argomenti c’è un esempio concreto di un caso giudiziario, in italia, in cui la difesa ha portato studi recentissimi che limitano di molto il campo della libera scelta, allo scopo di attenuare la pena

    infatti taluni ritengono che l’apparato giudiziario debba perdere la sua funzione di redenzione, per essere semplicemente uno strumento di deterrenza, un modo per contenere il crimine

    naturalmente possiamo ben immaginare come la questione sia spinosissima

    a volte penso a quando eravamo bambini, se il mio compagno di banco mi fregava la merenda e osava rispondere alle mie rimostranze con un «sono fatto così, che ci vuoi fare» era sicuro che finiva lo stesso in una zuffa furibonda, a suon di sganassoni

    sarò sincero: una soluzione al problema secondo me non c’è, e non ci sarà mai, bisogna navigare a vista cercando un compromesso fra le esigenze individuali e collettive

  • Adriana Bolfo

    Maggio 25, 2012

    Interessante il tutto, come sempre. E arguta la conclusione, una declinazione particolare del “perdere la testa”.

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